venerdì 7 ottobre 2011

Federico Borromeo, Manifestazioni demoniache

 Collegamenti ad alcuni siti telematici con riferimento all'opera in oggetto:





































Federico Borromeo, Manifestazioni demoniache, Prefazione di Franco Buzzi, Postfazione di Gabriella Cattaneo, Traduzione e note di Francesco di Ciaccia, Milano, ASEFI Terziaria, 2001, pp. 140.














Prefazione 
Oltre l’angoscia di Satana 

In un un secolo dominato da una specie di febbre satanica o di effervescenza diabolica, che arrivava a vedere abbondantemente nei fatti più diversi e reciprocamente estranei la presenza malefica del diavolo, l’approccio al fenomeno da parte del cardinal Federico Borromeo è indubbiamente espressione di una mente aperta e curiosa, formatasi con serietà e convinzione, alla scuola di un profondo e illuminato umanesimo cristiano.
Federico, come sempre, mira a sfatare la mentalità popolare, facilmente succube di credenze superstiziose che a quel tempo erano largamente diffuse, propalate anche dai tentativi di un incipiente sapere naturalistico, il quale in larga misura combinava insieme, senza distinguerle, magia e alchimia. Il risvolto immediatamente istituzionale di tali credenze – che popolavano il mondo di streghe, folletti e spiriti maligni sotto le sembianze di strani mostri – era allora costituito dalla reazione ufficiale della Chiesa. Essa divenne severa con l’istituzione dei suoi processi inquisitoriali, i quali spesso, anziché reprimere la diffusione del fenomeno, servirono ad incrementarne il fascino arcano.
Benché anche durante l’episcopato di Federico Borromeo si siano verificate alcune esecuzioni capitali per stregoneria, sono comunemente note le linee generali di moderazione che caratterizzarono, anche in casi del genere, gli interventi pastorali del Cardinale. Bisogna effettivamente ribadire che il suo atteggiamento culturale si ispirò al clima pacato dell’Umanesimo che, non senza momenti di sospensione e di contestazione, permeò del proprio spirito il cosiddetto grand siècle, che si estende dal 1450 circa al 1650 e che – com’è noto – si nutrì largamente, in tutta Europa, di questa cultura. Ben oltre l’esistenza, per altro immancabile e perciò indubbia, di certe misure controriformistiche che pure furono formalmente adottate dalla Chiesa milanese guidata da Federico, non si può fare a meno di notare, in questo come in molti altri suoi scritti, lo spirito di serena valutazione, di innato senso della misura, di ricerca appassionata, aggiornata e sincera della verità, ma soprattutto l’ottimistica convinzione che l’umanità non sia affatto abbandonata da Dio in balia delle oscure forze del male.
La credenza popolare nelle streghe, nella misteriosa capacità di satana di impadronirsi di uomini e donne, a danno di cose e persone, era un retaggio medievale che sperimentò un momento di particolare reviviscenza e raggiunse anche qualche apice di parossismo proprio nel secolo XVI e nei primi decenni del XVII, epoca assai travagliata dal punto di vista culturale e spirituale. Non sussistono in proposito soltanto testimonianze letterarie, legate per lo più alla pratica dei vari processi criminali, ma – a partire dall’invenzione della stampa – conosciamo oggi una serie abbastanza nutrita di opuscoli destinati ad assistere e a esortare i morenti nella lotta estrema contro il demonio. È una produzione letteraria, cattolica e protestante, che a partire dal XV secolo raggiunge l’epoca della Rivoluzione francese. Il genere dell’ars moriendi unisce insieme, agli inizi, tipografia e xilografia: testi e immagini riproducono il momento dell’ultimo attacco di satana, che tenta il moribondo nella sua fede, per indurlo infine a disperare della propria salvezza. Ma oltre a ciò, sussistono innumerevoli testimonianze di arte figurativa che ancora oggi fanno presa sulla nostra fantasia, infervorandola: dalle “danze macabre”, alle incisioni simboliche di Dürer, intrise di profonda e malinconica filosofia, ai sorprendenti dipinti di Hieronymus Bosch, che – attorno ai suoi santi – lascia libero gioco al mondo della follia e dell’incubo, a ciò che è subumano, mostruoso e diabolico, fino agli influssi esercitati da Bosch su Peter Brueghel il Vecchio.
Ora, nel contesto spaventoso evocato da queste testimonianze e dai loro successivi sviluppi culturali, la voce di Federico interviene a chiarire e a placare gli animi. Il suo atteggiamento, a partire dalla stessa impostazione data allo scritto qui preso in considerazione, si profila indubbiamente come quello tipico di un intellettuale molto dotto. Egli vuole anzitutto “chiarire” e “capire”. Si accinge perciò a interrogare i fenomeni per scoprirne la logica interna e avere modo di raccogliere prove certe, cioè argomenti razionali (sia ricavabili dall’osservazione dei fatti sia appoggiati da qualche autorità del passato), a proposito di dicerie che, fino a prova contraria, non godono di altra autorità da quella che viene loro dal proprio propalarsi privo di fondamento. A questo proposito gioverà notare con quale insistenza Federico metta in guardia dalla fervida immaginazione popolare che si nutre del sentito dire: “Credenze e dicerie del genere si moltipli-cano a partire da una sola voce, come avviene per l’eco che rimbalza in valli e monti” (cap. VIII); ancora: “Una volta che questa credenza ha catturato le menti del popolino, più facilmente la gente presta fede alle visioni, va in cerca dell’arte dei maghi e allaccia rapporti coi demoni” (cap. XIV). Anche e proprio in questo consiste il gioco di satana, il quale costruisce volentieri sulla menzogna, dunque anzitutto sulla mancanza di fondamento! L’ampia erudizione del Cardinale – di cui per altro egli dà continua testimonianza, citando innumerevoli autori antichi (soprattutto filosofi platonici e storici), come pure personaggi mitologici, ma anche episodi tratti dalla cronaca più recente – tende a impostare ogni problema secondo l’ampiezza di tutte le sue dimensioni. Il demoniaco infatti non è qualcosa che abbia libera cittadinanza solo entro il mondo cristiano. Esso riguarda l’uomo come tale, non però l’umanità in astratto, ma in concreto. Perciò egli non considera l’uomo semplicemente come individuo, bensì in quanto facente parte di un intero mondo culturale, in quanto vivente all’interno di un popolo, con una sua storia peculiare e in un determinato contesto geografico. Sarà perciò interessante osservare, nella trattazione di Federico, come – sia pure da un punto di vista marcatamente italocentrico (cap. XIV) – egli affronti questa materia in una prospettiva antropologica che non è più semplicemente quella filosofica astratta trasmessagli dalla tradizione, ma è piuttosto ante litteram quella che reca in sé – per così dire – i prodromi dell’antropologia culturale. A ben vedere (e in modo più preciso), in diversi casi egli ricava le sue conclusioni a partire da considerazioni di antropologia geografica (capp. XIV-XIX). Non si tratta ovviamente di una novità assoluta. Lo stesso Savonarola (+ 1498), per esempio, di indubbia formazione aristotelica, aveva già fatto proprie le considerazioni antropologico-geografiche sviluppate dallo Stagirita nella Politica (VII, 7), per suggerire la forma di governo più appropriata a un popolo piuttosto che a un altro, tenendo concretamente conto della latitudine geografica e di ciò che questa condizione concreta comporta per la complessione psico-fisica di individui che fanno parte di popoli stanziati in zone geografiche totalmente differenti. Ma ovviamente questi stimoli provenienti dal pensiero greco classico dovevano sperimentare proprio nei secoli XV e XVI, cioè nell’età delle grandi scoperte e dei viaggi, una fioritura di studi fino allora mai vista.
Nulla è estraneo all’interesse culturale del cardinale Federico. Le nuove scoperte geografiche, come le più recenti acquisizioni della scienza, devono servire a chiarire la complessità della realtà. Il presupposto pacifico che regge tutte le sue convinzioni è che ogni frammento di verità e ogni sguardo nuovo sulla realtà devono pure comporsi in unità. La visione culturale complessiva entro cui Federico svolge di volta in volta le sue ricerche – non importa quali siano – è fondamentalmente fiduciosa, è ispirata a un profondo ottimismo cristiano, il quale – “sicuro” della propria verità, ma non per questo “spavaldo”! – sa di non avere nulla da temere di fronte a qualsiasi novità, anzi – continuando ad essere tutt’altro che un integralista intransigente – Federico è convinto a priori che qualsiasi ulteriore raggio di verità potrà arricchire di nuovi colori il quadro della concezione cristiana in cui, a vario livello, ogni nuova scoperta verrà spontaneamente a inserirsi. Mi sembra questo il respiro del discorso federiciano, anche nel caso in cui si tratta di vedere più a fondo e più chiaramente in questa faccenda oscura del demoniaco. Infatti ogni lato oscuro della realtà è destinato, nella visione sostanzialmente serena di Federico, a lasciarsi illuminare dalle ricerche della ragione e dalla luce soprannaturale della rivelazione.
Si comprende perciò la sua ripetuta fiducia nei progressi della scienza, sia che si tratti di esprimere un apprezzamento generale nei confronti del suo tempo (“la nostra età ha studiato e pubblicato molti e mirabili cose sugli Spiriti dannati, e grazie alla diligenza degli studiosi è stata riconosciuta non già sconsiderata e perversa, ma attenta al bene dell’umanità”, cap. IV), sia che intenda manifestare la propria stima alla scienza stessa (“per conoscere le opere e la natura dei demoni hanno giovato anche le scienze che da circa centoventi anni si insegnano nelle scuole”, ibid.). In nome della scienza egli contraddice i “deliri dei cabbalisti” e si oppone alle “erronee interpretazioni delle divine Scritture”, le quali nascono “sia perché vengono ignorati i biblisti più seri e gravi, sia perché non si conoscono le lingue, sia perché molti, quando interpretano qualche passo e ne colgono un significato, non tengono conto né di quelli precedenti né di quelli successivi” (cap. VI). Federico sa che “molti strepiti e boati, che la gente ritiene essere dei demoni, in realtà non sono che effetti naturali” (cap. X). Le scienze cui il Cardinale fa ricorso non sono dunque solo quelle che, più direttamente, consentono una corretta ermeneutica biblica, ma decisamente anche quelle della natura, tra le quali deve computarsi, per esempio, la stessa medicina. Infatti “gran parte dei casi che potrebbero ricondurci all’intervento demoniaco [sta trattando degli ossessi] sono rapportabili anche a malattie fisiche” (cap. XX). Del resto, anche la conoscenza di determinate predisposizioni temperamentali, presso popoli che vivono a latitudini diverse, rende meglio comprensibile la presenza di alcuni vizi piuttosto che di altre virtù (capp. XVI e XVII). Insomma, il sapere a tutto campo consente a Federico di accostarsi a un tema scabroso come questo, senza perdere nulla in serenità e pacatezza.
Se poi dovessimo chiederci, com’è giusto, da dove provengano l’ottimismo e la grande serenità che traspaiono dall’intera trattazione di questo argomento, la risposta sarebbe senz’altro molto semplice. Federico ha infallibilmente colto le linee essenziali del discorso biblico cristiano sul demonio. Con la venuta di Cristo è decretata la fine del potere di satana. Infatti l’instaurazione del Regno di Dio significa al tempo stesso la fine del dominio del peccato e dunque del regno del demonio. Non sono molti i cenni espliciti a questa dottrina, ma ci sono, e – nella loro scarna formulazione – appaiono assai efficaci: “Con l’incarnazione del Verbo l’intero Regno dell’idolatria è stato debellato dai cristiani” (cap. XVIII); inoltre egli è fermamente convinto che – nel tempo che corre tra la venuta di Cristo e il suo ritorno – la presenza e la forza del demoniaco si sono attenuate di molto (cap. IV).
Questi semplici cenni bastano per farci intendere il quadro generale cristiano entro il quale Federico pone la questione del demoniaco. È chiaro, infatti, che il Cardinale non ha inteso mettere in discussione la dottrina tradizionale sull’esistenza e la natura del demonio – anzi, egli accetta pacificamente i tratti fondamentali della dottrina scolastica comunemente recepita –, nondimeno dimostra di essere sensibile a un discorso sul demonio e le sue opere che appare indubbiamente più attento all’impostazione dettata dall’historia salutis.
Infatti, i semplici riferimenti all’incarnazione del Verbo – assunto come punto chiave per comprendere a fondo la reale presenza, ma anche il limite insuperabile di ogni potere di satana nella vicenda degli uomini – evocano spontaneamente al nostro ricordo le pagine che aprono e chiudono tutta la Bibbia. Se all’inizio della storia della salvezza (Gen 3) satana viene introdotto come un nemico che vuole guastare ogni cosa buona creata da Dio, inducendo l’uomo a un atto di inaudita e temeraria disobbedienza, alla fine della storia, sempre letta alla luce della rivelazione compiuta (Ap 12), il suo potere di seduzione e la sua inimicizia appaiono del tutto annientati nel loro effetto: “II grande drago, il serpente antico, colui che chiamano il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra”. In questo contesto l’Apocalisse parla anche del motivo ovvero del vero oggetto dell’odio di satana: questi è rappresentato dal figlio della donna, di cui il primo Adamo è solo l’immagine o, se vogliamo, il pronostico. Infatti vera e definitiva progenie della donna è il vero Adamo, il Figlio dell’Uomo: Gesù Cristo. Contro costui satana non può nulla: “il figlio fu subito rapito verso Dio e verso il suo trono”; ma, in definitiva, non può nulla neppure contro tutti coloro che portano il suo nome, “quelli che osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù”.
L’ottimismo cristiano di Federico nasce perciò dalla convinzione che Cristo risorto ha vinto la morte e pertanto ha sconfitto l’artefice della medesima, cioè il diavolo e la sua invidia (cfr. Sap 2, 24). Il regno di Cristo è dunque già cominciato, anche se nel tempo che ci separa dal suo ritorno qualche spazio è ancora lasciato all’iniziativa di satana, soprattutto da parte di coloro che spontaneamente gli vogliono aprire le porte. In questi casi satana continua a fare il suo lavoro di sempre, che consiste nel lusingare gli uomini, prospettando loro il paradiso artificiale di un mondo senza Dio, per poi consegnare alla propria inesorabile disperazione tutti gli sventurati che gli hanno dato credito. Queste vicende del demoniaco, con tutti gli intrighi di cui è capace satana, sono entrate a fare parte sostanziale della grande letteratura di ogni tempo. Il patto con satana, ben noto allo stesso Federico (cap. XIV), ha alimentato innumerevoli racconti nel Nord, che a loro volta sono sfociati nella leggenda del dottor Johannes Faust, la quale ha eccitato il genio di molti autori, letterati e musicisti, tra cui mi limito a ricordare: Ch. Marlowe, Lessing, Goethe e Th. Mann; Schumann, Wagner, Liszt e Busoni. Non esito però a credere che nessuno meglio di Dostoevskij sia riuscito a descrivere le manifestazioni più subdole di satana nello spirito umano e la conseguente devastazione mortale cui conduce, in modo inesorabile, il cedimento alla sua menzogna, la quale consiste essenzialmente nella contraddittoria e perciò insostenibile negazione di Dio.
Non toccò a Federico e al suo tempo il compito di scavare in modo esistenziale nelle profondità e nei turbamenti dell’animo contaminato dalla presenza del demoniaco. A lui fu invece concesso di offrire al mondo, in un secolo di terrore, una parola di rassicurante consolazione, che egli – come si diceva – seppe ricavare fedelmente dalla tradizione biblica: “II brano del Salmo citato [Sal 91] esalta la protezione e la cura con cui Dio tutela i suoi amici e dice che Dio sarà come scudo alla cui ombra non si deve temere alcun male: né la saetta che vola nel giorno, cioè i mali che ci assalgono d’improvviso, inattesi, né le evenienze sia pure notturne e le incertezze delle tenebre” (cap. VI). L’uomo di fede riposa tranquillo nelle mani di Dio: i suoi giorni e le sue notti sono protetti da un Dio provvido e vicino, che veglia su di lui e lo libera da tutte le sue angosce, perciò anche dalla paura dei subdoli attacchi estemporanei di satana.
Mi torna impossibile chiudere questa breve prefazione, senza un cenno di ringraziamento al curatore di quest’opera federiciana, l’amico prof. Francesco di Ciaccia. Da molti anni infatti egli si occupa di storia religiosa della prima età moderna. Oltre tutto ha già dedicato altre fatiche ai testi di Federico, traducendo dello stesso autore il De ecstaticis mulieribus et illusis. Ora la traduzione limpida e piacevole delle Manifestazioni demoniache, con le abbondanti e puntuali note esplicative e gli essenziali rimandi bibliografici che le fanno da utile corredo, offre al lettore italiano l’occasione preziosa di accostarsi a un lato forse meno noto, ma indubbiamente suggestivo, del complesso e poliedrico pensiero di Federico Borromeo. Alla figura storica di questo glorioso personaggio milanese l’“Accademia di San Carlo”, operante da circa un trentennio presso la Biblioteca Ambrosiana – fondata, tra l’altro, dal medesimo cardinal Federico nel 1603 –, ha intenzione di dedicare diversi studi in vista delle celebrazioni del 2003. 
Franco Buzzi
Dottore della Biblioteca Ambrosiana
Milano 1° settembre 2002



Postfazione 
Alcuni appunti ai diavoli del cardinal Federigo 

Se monsignor Franco Buzzi ha messo in luce gli aspetti più ammirevoli della multiforme cultura di Federigo, a me tocca la parte del diavolo (per restare in argomento) e osservare alcune incongruenze di un testo che condivide inevitabilmente i caratteri della cultura del suo tempo, lontana anni luce dalla nostra e perciò sotto molti aspetti per noi difficile da intendere.
La prima difficoltà consiste nel carattere eurocentrico, ben messo in luce da Buzzi, della cultura secentesca; nonostante il recente approccio ai continenti extraeuropei, mancava al mondo del XVII secolo una vera consapevolezza del “diverso”, automaticamente visto come “strano”: e da strano a “malvagio” il passo è breve. Ne abbiamo ampie prove nell’attuale società multietnica, che è ancora ben lungi dall’accettare lo straniero come diverso ma di eguale dignità.
La conoscenza del mondo extraeuropeo era, a quei tempi, limitata e soprattutto mediata attraverso testi e cronache poco precisi e saturi di preconcetti, non molto diversi dal capostipite Milione di Marco Polo; testi che, però, erano presi sul serio. La meticolosità di Federigo nel cercare e citare le sue fonti sull’Asia, l’Africa e le Americhe risulta, perciò, vanificata dall’inattendibilità delle notizie e delle descrizioni antropologiche cui egli attribuisce piena fiducia.
Ecco, quindi, comparire popoli afflitti da licantropi, considerati sotto influsso demoniaco, in un vago Settentrione, in cui pare che i Lapponi sintetizzino tutti gli orrori possibili e immaginabili. Eppure, tra improbabili lotte tra streghe e licantropi fomentati dai diavoli, emerge un’interessante ipotesi: che possano essere dei maghi a trasformarsi in lupi. Nella mitologia di alcuni popoli, come i nativi americani, uno stregone che si è votato alla magia nera è in grado di trasformarsi in animale: i Navajo chiamano appunto gli stregoni “lupi navajo”, e analogo fenomeno esiste nell’immaginario dei lontani popoli delle pianure, come i Lakota.
Ecco popoli naturalmente atei, poiché mancavano due secoli alla nascita di un’antropologia religiosa che stabilisse che nessun popolo è naturalmente privo di religiosità. Ecco curiose notizie sui cinesi monoteisti che adorano un unico Re del Ciclo: notizia che per altro merita un approfondimento.
Non è forse possibile che tale credenza, diffusa nell’Europa secentesca, nascesse da una confusione geografica e si riferisse al mito indo-tibetano del Re del Mondo, abitante a Shambalah, la città fisica e metafisica nel contempo, collegata a tutti i luoghi del mondo e al di fuori di esso? Non è, per altro, improbabile che nella Cina, terra di diffusione missionaria dell’induismo-buddhismo, il mito fosse diffuso e che lì ne abbia avuto notizia qualche viaggiatore europeo.
Altrettanto diffusa quanto la licantropia del Settentrione sembra a Federigo l’antropofagia negli altri continenti; ed egli è certo che essa si colleghi alla presenza demoniaca. Probabilmente non poteva pensare diversamente due o tre secoli prima che l’antropologia spiegasse il cannibalismo come prevalente forma rituale, che permette a chi si ciba di determinate parti di un defunto di ereditarne i caratteri più ammirevoli, quali il coraggio in un nemico vinto o la saggezza in un antenato.
Altro elemento chiarito solo più tardi in sede antropologica è la valenza ancipite del serpente, mortale e salvifico, segno cosmico e totalizzante, scelto nel linguaggio veterotestamentario per significare la tentazione e il peccato di Adamo, e probabilmente non perché i serpenti sono fondamentalmente vermi come afferma l’autore, ipotesi originale anche dal punto di vista zoologico.
Un interessante elemento cui Federigo accenna, probabilmente senza poter possedere una precisa conoscenza della mitologia nordica, è quello degli “omiciattoli pelosi” presenti nelle miniere e da lui assimilati a demoni: essi, in realtà, sembrano somigliare molto al “Piccolo popolo” della tradizione celtica o forse ancor più ai folletti di quella sassone, custodi per l’appunto dei tesori custoditi sotto la terra, compreso l’oro delle miniere. Sia gli uni, sia gli altri, sono antropologicamente da assimilare a divinità ctonie. Anche se Federigo avesse potuto averne nozione, tuttavia, li avrebbe considerati demoni, come fa di tutte le divinità pagane.
È interessante osservare come Federigo, che pure fu grande studioso della cultura classifica, consideri divinità, semidivinità e personaggi classici come demoni: tali sono per lui tutti gli oracoli, i fauni. In questa visione egli si allinea con la più antica tradizione apologetica e patristica, che demonizzava tutti i culti pagani, se non riusciva a trovare nei miti una così forte analogia con il credo cristiano da assimilarveli (come nel caso di Perseo-S. Giorgio).
Vi è però una curiosa debolezza da umanista: l’affermazione apologetica nei confronti del mondo romano che non avrebbe praticato né permesso la magia. Ora, chi conosce l’opera degli scrittori latini più noti, da Orazio ad Apuleio al Satyricon, non può ignorare che il popolo romano era dedito ad ogni tipo di culti magici, bianchi e neri, e non sempre solo a livello popolare. Evidentemente Federigo ha idealizzato l’antica Roma, pur condannandone il paganesimo, e la vuole proporre come modello di società.
Altro aspetto in cui Federigo riprende la cultura classica è la ripartizione della parte principale del libretto, in cui la locazione dei diavoli è suddivisa tra gli elementi costitutivi del cosmo, quali li avevano ipotizzati già i filosofi presocratici: i suoi demoni della terra, dell’aria, dell’acqua e del fuoco apparirebbero essenzialmente degli “elementali” ad un alchimista o in generale a un esoterista, ma certo Federigo non sarebbe per niente soddisfatto di tale associazione...
Vi sono categorie di persone che Federigo aborre ed associa immediatamente alla presenza demoniaca: i cabbalisti, i medici empirici, i filosofi naturali.
Che cosa intenda per i primi rimane piuttosto oscuro: non sembra riferirsi all’antica numerologia babilonese, per altro assunta pienamente dall’Antico e dal Nuovo Testamento nell’uso simbolico dei numeri; e nemmeno alla Kabbalah come sapienza iniziatica di ambiente ebraico, sviluppatasi nell’era volgare. Forse usa il termine come sinonimo di magia? Di astromanzia o cartomanzia? Anche il termine “necromanzia” è usato impropriamente, ma nel senso comunemente attribuitogli già dal Rinascimento: II Negromante dell’Ariosto si riferisce già ad uno stregone nero, e non ad uno dedito alla rianimazione dei cadaveri grazie ad arti demoniache, come indica propriamente la definizione.
I medici empirici sono l’oggetto comune degli strali di tutta la cultura artistotelico-tomista del Seicento, come i filosofi naturali, ovviamente empirici e non aristotelici: la testimonianza migliore è data dall’opera di Galileo: Federigo, quindi, si allinea perfettamente alla cultura del suo tempo, cosa inevitabile per un uomo di fede per cui la cultura aristotelico-tomista è l’unica veridica ed ortodossa.
La condivisione dei presupposti culturali del tempo è evidente anche nella citazione della teoria degli umori, anche se il collegamento tra umore melanconico e pratica della necromanzia è un’osservazione aggiuntiva.
Perfettamente coerente nella sua logica, certo più secentesca che umanistica, è la concezione che i demoni siano brutti, sporchi e piuttosto schifosi, come gli idoli, naturalmente, perché vogliono farsi temere più che amare, per contrapporsi a Dio che desidera essere amato. La stessa concezione aveva spinto gli artisti medioevali a rappresentarli come mostri, draghi e minacciosi felini, mentre il Rinascimento aveva adottato una concezione opposta: quella della bellezza e del fascino del diavolo, certo più efficace per indurre l’uomo in tentazione rispetto all’orrore. Infatti nell’arte rinascimentale la testa di drago del serpente attorcigliato all’Albero della tentazione era stata sostituita da una graziosa testa umana e talora anche da un tantalizzante busto femminile (come in Paolo Uccello, van Eyck, Michelangelo e moltissimi altri).
Due serie di osservazioni appaiono però, a chi scrive, meno coerenti e spiegabili: quella riguardante i poteri dei diavoli sulla natura e quella sulle loro preferenze per i luoghi solitari. Come mai i diavoli, nei sabba (su cui curiosamente Federigo non si sofferma, citandoli quasi di passaggio) non hanno potere di rinnovare il verde dell’erba, ma hanno quello di addensare l’atmosfera tanto che ci si possa ballare sopra sospesi a mezz’aria? E come mai, se amano tanto i luoghi solitari, come si dice per metà del libretto, in mare non si aggirano al largo, ma lungo le coste abitate, cercando i luoghi dove c’è gente?
Come si diceva nei romanzi ottocenteschi, forse i nostri interrogativi saranno chiariti quando verrà pubblicato il seguente testo di demonologia di Federigo sulle cognizioni possedute dai diavoli... 
Gabriella Cattaneo
Docente di Arte Cristiana presso ISSRM


RECENSIONI

Attilio Agnoletto, in «Humanitas», 3 (2002), pp. 511-512.


Sembra doveroso ed utile segnalare questa opera raramente conosciuta di Federico Borromeo, che nel testo originale suona Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum, nella agile e preziosa traduzione di Francesco di Ciaccia. Il libro, pubblicato dalla Terziaria, è prefato da mons. Franco Buzzi e reca una pregevole postfazione della professoressa Gabriella Cattaneo.
È interessante notare che Buzzi insiste sul «profondo ottimismo cristiano» di Federico Borromeo (p. II). «Infatti», egli dice, «ogni lato oscuro della realtà è destinato, nella visione sostanzialmente serena di Federico, a lasciarsi illuminare dalle ricerche della ragione e dalla luce soprannaturale della rivelazione» (p. II). Ecco quindi, per Franco Buzzi, Federico umanista, che ha qui «fiducia nei progressi della scienza». A questa visione, diremo quasi serena, di un mondo sconosciuto per l’uomo e, da secoli, oggetto di curiosità, si contrappone la postfazione oltremodo interessante della storica dell’arte Gabriella Cattaneo che, come afferma ella stessa, facendo «la parte del diavolo» (p. 131), vanifica l’attendibilità delle fonti di cui si avvale Federico Borromeo, definendole «testi e cronache poco precisi e saturi di preconcetti», inserendo completamente l’Autore nella cultura del Seicento e nella scuola aristotelico-tomista, definendo la sua logica «più secentesca che umanistica» (p. 134).
In questi due autorevoli giudizi, Federico appare di fronte a noi come una personalità complessa e, vorremmo dire, a volte contraddittoria. Il Manzoni, che tanto aveva esaminato questa singolare figura, ci dice ne I promessi sposi: «Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme [...] Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo vorrebbe difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi, scusa che, per certe cose, e quando risultano dall’esame particolare dei fatti, può avere qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo un episodio, tralasceremo d’esporle [...]» (cap. XXII, p. 539).
Il Buzzi accenna un cammino per una indagine il più possibile completa e sottile del carattere di Federico Borromeo: ringraziando il di Ciaccia, curatore dell’opera e «profondo studioso di storia religiosa della prima età moderna», ne indica un’altra traduzione di un’opera federiciana: De ecstaticis mulieribus et illusis. Il volume, pubblicato da Xenia nel 1988, sembra puntualizzare sottilmente, secondo la scienza del tempo, il fenomeno mistico delle donne, soprattutto nelle claustrali, esaminandolo sotto l’aspetto «psico-fisiologico».
Questo scritto del Cardinale aggiunge luci ed ombre nella complessa personalità, soprattutto se si pensa che Federico Borromeo fu il biografo più attendibile di una mistica senese: suor Caterina Vannini. A questo proposito, il Borromeo, proprio per quanto riguarda i demoni e le apparizioni, scrive nel volume che presento: «[...] possiamo affermare che l’incursione e le infestazioni dei demoni sono manifeste proprio là, dove si conduce una vita più santa e pura. Lo dimostrano gli esempi dei monaci antichi, anche quando si trovavano in mezzo alla gente in città. Né tralascerei ciò di cui siamo venuti a conoscere in tanti anni trascorsi nella guida di questa Chiesa: quei monasteri delle sacre vergini dove fioriscono in sommo grado la santità di vita, la disciplina religiosa e tutte le virtù, sono infestati da malefici, incantesimi, strepito di demoni, tentazioni strabilianti: al contrario, dove la condotta di vita è più rilassata, quasi nulla del genere succede» (pp. 54-55).
Va ricordato qui, con una certa mia perplessità, che nel carteggio Borromeo-Vannini (conservato presso la Biblioteca Ambrosiana) mancano le lettere del Cardinale. Ho inteso tracciare una linea che ricostruisse o, almeno, desse una logica a questa personalità prettamente secentesca. Vorremmo terminare citando il cap. XX («Gli ossessi»), in cui il Cardinale afferma «l’esistenza dei demoni» (p. 122).
Il demone o «assedia e circonda il corpo dell’uomo», procurando così l’ossessione, o «entra nel corpo dell’uomo, vi abita, si serve delle sue membra facendogli compiere cose insolite», procurando la possessione (cfr. nota 1, p. 121). Il simbolo dell’ambivalenza bene-male, Dio-Satana può essere esemplificato nelle pagine riguardanti i licantropi: «Infatti», dice Federico Borromeo, «per astuzia del reprobo demonio, per la quale alimentano in perpetuo la guerra tra maghe e licantropi, i licantropi combattono di continuo le donne, e sferzano, uccidono, feriscono le maghe, atrocemente. Penso che in questa faccenda i demoni si servano di tale macchinazione, certamente per convincere i licantropi di avere a cuore la salvezza degli uomini e che quella vendetta [contro le maghe] è la preoccupazione di animi generosi [...]».
Giochi di immagini in uno specchio, sembianze che appaiono operando nell’occulto: non soltanto nella credenza secentesca, ma anche, e soprattutto nell’animo umano, fino ai nostri giorni.
attilio agnoletto



Attilio Agnoletto, in «Terra Ambrosiana», N.° 5, Anno XLII/settembre-ottobre 2001, pp. 70-71. 

La figura del cardinale Federico Borromeo, entrata nell’immaginario collettivo degli italiani come personaggio manzoniano, è stata sempre concretamente viva, nella cultura milanese, grazie alla Biblioteca Ambrosiana da lui creata. E spesso, nei suoi scritti, Federico fa riferimento a codici e a volumi “che si trovano – così si esprime – nella nostra Biblioteca”: lo fa anche in questo agile scritto, Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum. Liber unus, edito nel 1624 ed ora in prima traduzione italiana compiuta sul testo, catalogato “Borromeo 76”, della medesima Biblioteca.
La memoria di Federico Borromeo ha conosciuto un ulteriore impulso negli anni intorno al 1985, in occasione del secondo centenario della nascita del Manzoni. Molti furono gli scritti sul Cardinale, sia come personaggio d’arte, sia come personalità storica, ma ebbe il merito di avvicinarlo al gran pubblico lo studioso Armando Torno con la nuova traduzione del De Pestilentia di Federico, edita da Rusconi nel 1987 con il titolo La peste di Milano. L’opera registrò un vasto consenso di pubblico (due edizioni in due mesi), anche perché il tema è strettamente connesso con l’immagine federiciana del romanzo manzoniano. Da quel libro, grazie al bel saggio introduttivo del curatore Armando Torno, i lettori appresero anche quanto fosse fecondo il cardinale, in fatto di scritti. Federico Borromeo, amante degli studi fin da giovane, amò sempre dedicarsi alla lettura e alla scrittura: lo confidava egli stesso, nelle sue lettere e le sue numerose opere edite lo dimostrano. Ma ebbe poca fortuna, quanto alla divulgazione e traduzione dei suoi lavori, come ricorda del resto anche il Manzoni. Eppure, la sua penna, alacre ed insonne, ebbe modo di spaziare in tutti i campi, sia dello scibile, sia dei temi più scottanti nella sua epoca. Non è esagerato affermare che l’“Opera omnia” di Federico Borromeo rappresenta la “mappa” di un largo filone di pensiero del suo tempo. Molte sue opinioni apparivano già al Manzoni “piuttosto strane” o persino “malfondate”; né sembra che lo stesso Manzoni si accontentasse di “quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi”. Nella post-fazione al presente libro, Gabriella Cananeo, esperta di scienze religiose, ma anche di cultura classica ed umanistica, da una parte si rapporta alle idee dell’epoca federiciana, e dall’altra non cela le incongruenze” del pensiero e dei ragionamenti del Cardinale, soprattutto in riferimento ai dati della cultura classica riguardo al demoniaco. Si può inoltre aggiungere che Federico ebbe a scrivere fin troppo, spesso ripetendosi. Ciò non toglie che diverse sue opere siano importanti: sia come documento storico-culturale, sia come testimonianza della ricerca della verità. Quest’ultimo aspetto è messo in risalto nell’Introduzione, erudita ed ampia, di mons. Franco Buzzi, dottore della Biblioteca Ambrosiana: Oltre l’angoscia di Satana. Il titolo stesso però focalizza l’immagine soprattutto del Borromeo “cristiano”: l’affidamento dell’uomo a Dio è un sicuro baluardo contro non solo i pericoli, ma anche contro la paura nei confronti del demoniaco. In un impianto più fenomenologico, il punto di vista è condiviso da Sergio Cosmacini, storico della medicina, nell’interpretazione esposta nel suo Elzeviro, “Quando il diavolo era nemico della scienza” (“Corriere della Sera”, 2 agosto 2001), in cui egli prende in esame il libro. Lo studioso termina l’intervento con questa frase scultorea: “Contro le deliranti credenze in voga, il cardinale Federico si assume, per certi aspetti, la luciferina parte del diavolo”.
Si deve dunque plaudire all’operazione editoriale che porta alla luce il breve scritto del Cardinale sul tema demoniaco (94 pagine, quelle dell’edito borromaico). Un tema molto sentito, all’epoca; ma ancor oggi diffuso. E anche oggi tra un mare di convincimenti diversi, di credenze magmatiche, di idee le più disparate. A leggere un consistente filone dell’odierna letteratura, sembra l’odierna letteratura, sembra che ci sia voglia del diavolo! Ma in questo scritto fede riciano non si tratta del diavolo tentatore, del diavolo “con le corna”, cioè a immagine umana, come è nell’iconografìa più comune. Programmaticamente, qui è preso in considerazione l’apparire del demonio come “trasformazione”, o metamorfosi, dai quattro elementi: terra (suolo e sottosuolo), fuoco (vulcani compresi), acqua, aria. Non stupisce perciò, come osserva Alessandro Zaccuri nella sua recensione (“L’Avvenire”, 29 agosto 2002), che il libro sia corredato di disegni di Stefano Martino, che lavora per i fumetti dell’Editrice Bonelli: disegni di grande efficacia, anche per la giusta aderenza alle rappresentazioni demoniache esposte nel testo. Qui Federico soprattutto racconta: e nella sua scrittura il narrare è certamente il registro che lo rende più vivo, efficace. Sono credenze o fenomeni riferiti da terre lontane e vicine, in tempi recenti e in tempi passati: si gode anche di una considerevole fetta di letteratura delle superstizioni e degli esploratori nelle due Indie, nella Cina di Marco Polo, nell’Africa. La lettura è piacevole: la traduzione è estremamente rigorosa, filologica, corredata in nota delle varianti al testo edito, vergate di proprio pugno dal Cardinale. Ma è anche una prosa da “scrittore”, in cui il traduttore ha già dato, ormai, diverse prove in altri suoi lavori. [Attilio Agnoletto]



 
Luca Ceriotti, in «Studia Borromaica. Saggi e documenti di storia religiosa e civile della prima età moderna», Accademia di San Carlo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, N. 15, 2001, pp. 273-277.

Chi desiderasse una edizione critica dei Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum di Federico Borromeo dovrà rivolgersi altrove. Non che si tratti di una pretesa gratuita, benché formulata a proposito di un testo regolarmente uscito alle stampe, a Milano nel 1624. Dopo aver letto il contributo che Franco Buzzi affida a questo numero di «Studia Borromaica», appare chiaro infatti come il Borromeo non operasse una netta distinzione concettuale tra redazione manoscritta e versione a stampa dei propri lavori, quanto piuttosto tra stampa e pubblicazione. Si possono pertanto considerare – ed egli stesso le considerava – le edizioni a stampa apparse durante la vita del cardinale o immediatamente dopo la sua morte quali stesure intermedie delle sue opere, sulle quali egli ancora insisteva con ripetuti interventi di affinamento e rielaborazione in vista di una ulteriore edizione, definitiva e postuma, che sola avrebbe dovuto essere diffusa tra i dotti, essere cioè resa pubblica. Poiché non sempre coloro i quali raccolsero l’eredità culturale del cardinale umanista portarono a compimento con adeguato puntiglio il progetto borromaico di pubblicazione dei propri scritti, si renderebbe dunque necessario un sistematico lavorio di integrazione dell’edito con le successive aggiunte e correzioni di mano dell’autore; lavorio che, nel caso dei Parallela cosmographica, si traduce almeno nella metodica collazione degli esemplari ambrosiani Borromeo.77 e Borromeo.76, entrambi impreziositi da un corredo non trascurabile di postille autografe (tra le quali, probabilmente, quelle di Borromeo.77 preludono alle altre di Borromeo.76).
L’iniziativa editoriale coordinata da Francesco di Ciaccia, tuttavia, non si prefigge tale compito, che non potrebbe prescindere tra l’altro da una introduzione critica in grado di far luce sulla storia del testo, indagando le istanze intellettuali che spinsero il Borromeo a cimentarsi in quelle pagine come pure le finalità che così egli si proponeva di raggiungere, e precisando magari, data appunto la limitatissima tiratura che caratterizzò l’editio princeps, la reperibilità degli esemplari superstiti. Il volume che qui si intende segnalare opta invece per una più agile divulgazione, offrendo al posto dell’originale latino la relativa traduzione italiana, peraltro annotata, anche tenendo conto in qualche misura dei marginalia di Borromeo.76, e accompagnata da due brani di commento, che rispondono allo scopo di suggerire una prima collocazione del breve trattato federiciano: da un lato, nella prefazione di Franco Buzzi, nel quadro delle timorose chiusure con cui tra Cinque e Seicento si affrontavano i temi dell’occulto, in confronto alle quali il cardinale dell’Ambrosiana dimostra una peculiare serenità di giudizio; dall’altro, nella postfazione di Gabriella Cattaneo, ricorrendo quale termine di paragone alla mentalità del XXI secolo, rispetto a cui il connotato di sobrietà proprio della visione federiciana appare ovviamente ben più vacillante.
Di là da quanto si possa, o meno, concordare con le scelte editoriali del curatore, gli va riconosciuto come un risultato importante sia stato comunque raggiunto: e non solo nel proporre nuovamente alla lettura un’opera che, come molte altre del prelato manzoniano, sembrava ormai irrimediabilmente obliata, ma anche nell’averlo fatto secondo una veste, sia grafica, sia linguistica, che non scoraggia coloro che non siano specialisti del periodo borromaico, né tantomeno quelli che non hanno particolare dimestichezza con il contorto latino del secolo barocco. Lo stringato, ma denso, scritto federiciano si apre così facilmente a una serie di considerazioni.
Innazitutto, già da una prima fugace lettura si ha la conferma di quanto Franco Buzzi avvertiva nell’articolo citato: quello dei Parallela cosmographica non è un testo definitivo. Da un lato, esso si interrompe tanto bruscamente, e senza avanzare qualsiasi conclusione, da sembrare pressoché mutilo. Non di rado, poi, si riscontra una scarsa aderenza tra l’intitolazione dei capitoli e il loro contenuto. Ancora, non mancano le incoerenze, per esempio in merito alla questione, che per il Borromeo non è certamente risibile, se le manifestazioni demoniache siano più frequenti oppure no nell’epoca a lui contemporanea e nei domini della cristianità (si confrontino in proposito le discordanti prospettive illuminate nei capitoli IV e XX).
Più in generale, lo svolgimento seguito dai Parallela cosmographica, talvolta criptico, quasi mai piano, costituisce un segnale della provvisorietà di una stesura che vuole essere ancora ripetutamente limata. Ed è questo un sicuro retaggio del metodo federiciano, che perviene alla redazione definitiva di un testo attraverso il reiterato riordino di una cospicua messe di appunti e citazioni, pur anche rappresentando con precisione la cifra stilistica del cardinale umanista, certamente più incisivo nell’afferrare allusivamente un pensiero o una immagine di quanto non lo sia nel sistemare organicamente una materia complessa; davvero brillante nella difficile arte di plasmare aforismi (quelli, per esempio, che costellano la Miscellanea adnotationum variarum), ma assai meno a suo agio nel progettare un trattato, quale i Parallela cosmographica vorrebbero essere.
In ogni caso, per quanto imperfetta (nel senso di non conclusa, si intende), l’opera federiciana induce a una serie di riflessioni. In primo luogo, viene da chiedersi, perché il cardinale la scrisse? Si possono avanzare alcune scontate osservazioni preliminari, ripensando alla celebre curiosità enciclopedica, che spronava il secondo Borromeo, e alla sua abitudine quasi maniacale di prendere appunti su qualsiasi argomento: si potrebbe inferire, un po’ banalmente, che il mecenate dell’Ambrosiana, avendo radunato sufficiente materiale in tema di demonologia, si fosse deciso a ordinarlo un po’ meglio (del resto, è questa una tecnica piuttosto diffusa tra i poligrafi cinque e seicenteschi; vi fa sovente ricorso, per esempio, Gerolamo Cardano).
D’altro canto il coinvolgimento borromaico con il paranormale non si esaurisce nei Parallela cosmographica. È del 1616 la stampa dei quattro «libri» De ecstaticis mulieribus et illusis (qualche anno fa anch’essi tradotti da Francesco di Ciaccia, sotto il titolo Da Dio a Satana. L’opera di Federico Borromeo sul «Misticismo vero e falso delle donne», Milano 1988), dominati dall’esigenza federiciana di distinguere la ‘vera estasi’ al cospetto del divino, dalla ‘illusione dell’estasi’ che il demonio talvolta induce nelle donne. Escono nel ’17, invece, i due «libri» De naturali ecstasi e De vario revelationum et illusionum genere. Pressoché in contemporanea con i Parallela cosmographica, nel ‘24 viene consegnato ai torchi tipografici il De cogitationibus quas habent demones. Ancora, sono del ‘27 i De cabbalisticis. inventis libri duo. E così via. Insomma, «occasionale» è un aggettivo inutilizzabile per connotare l’interesse che il cardinale Federico nutriva nei confronti dell’occulto. Ma, detto questo, bisogna anche segnalare come nei Parallela cosmographica una spiegazione compiuta delle ragioni di tale acribia non sia possibile rintracciarla.
Comunque, se poco si può dire sul perché Federico torni a più riprese su questi argomenti, qualcosa di più si può aggiungere sul come egli li affronta. Sono, questi, temi estremamente delicati e nel trattarli la prima cura di un vescovo della controriforma è non deragliare dai binari dell’ortodossia cattolica, al punto da ribadire espressamente la necessità di «lasciare il giudizio definitivo all’autorità della Chiesa e al sommo pontefice» (p. 37), restando «fuori discussione che non si intende allontanarsi dalla sua volontà in nessun caso» (p. 40). Per ulteriore precauzione, Federico sembra abdicare al desiderio di manifestare una posizione innovativa – in perfetta consonanza, comunque, con lo spirito di un’epoca che antepone il rispetto della auctoritas alla ricerca della novitas -, rifugiandosi piuttosto, e volontariamente, dietro a un approccio di natura compilativa.
In questo senso, assume particolare valore la gerarchia delle fonti, che il cardinale fa propria: al primo posto, come è ovvio, la Sacra Scrittura; poi gli antichi, classici e cristiani, rispetto ai quali, ancora una volta, egli dimostra una amplissima conoscenza; poi le opere degli storici, antichi e moderni, le descrizioni dei paesi di recente scoperta, i resoconti dei geografi e dei viaggiatori. Anche in questo caso, come sempre, l’universo delle letture federiciane si rivela strabiliante: il cardinale compulsa le carte di Abramo Ortelio (1527-1598), l’artefice del Theatrum orbis terrarum, frequenta le descrizioni di Olao Magno (1490-1557), legge la storia polacca di Martin Cromer (1512-1589), ritorna sul Milione, sulle narrazioni di Niccolo de’ Conti (1395-1469), sui racconti di Antonio Pigafetta (1480 c.-1536 c.), il compagno di Magellano; soprattutto, il cardinale raccoglie ed esamina tutto quanto si può trovare a proposito delle Indie e di altri esotici paesi, dagli scritti di Pietro Martire d’Anghiera (1457-1526), a quelli di Gonzalo Fernandéz de Oviedo (1478-1557) e Bartolomé Carreño (sec. XVI).
Massime la Bibbia, dunque, con qualche lieve precauzione gli antichi, non indiscriminatamente i moderni, tutte queste fonti contribuiscono a rimpinguare il sostanzioso coacervo di informazioni su cui il Borromeo costruisce le proprie osservazioni. Non che, al loro cospetto, egli rinunci completamente a esercitare un certo acume critico, sebbene, a proposito della Sacra Scrittura, ciò non possa esprimersi oltre un laconico ammonimento a scansare le «interpretazioni erronee» del testo, lanciato attraverso un significativo elogio della filologia (p. 45). Ciò nonostante, l’attendibilità e l’efficacia probatoria di quanto emerge da quelle fonti raramente divengono oggetto di disquisizione. Così per esempio, sulla base dell’autorità di Aristotele, per il cardinale Federico diventa indiscutibile l’asserzione che dalla neve imputridita possano nascere vermi (pp. 70 e 87; ma, come è noto, il succedasi di teorie sulla generazione spontanea della vita sarebbe andato ben oltre l’età federiciana: l’imputare al Borromeo l’aberrazione delle sue convinzioni naturalistiche sarebbe un peccato di antistoricità). Oppure, passando in rassegna alcune delle innumerevoli narrazioni che raccontano di terrificanti fortunali scatenati da demoni e di prodigiosi salvataggi di vascelli dovuti al provvidenziale intervento di angeli e santi (cap. XII, intitolato a Le acque), benché la plausibilità delle singole ricostruzioni sia spesso sottoposta a verifica, per linee più generali la reale possibilità che tali eventi si verifichino viene assunta dall’arcivescovo di Milano quale incontestabile a priori; mentre, altrove in Europa, vi era già chi riduceva tali contesti agli ambiti dell’immaginario, ricavandone preziosi escamotage letterari, come nella shakespeariana Tempesta.
A questo punto si rende opportuno sgombrare il campo da una questione di fondo: il cardinale Borromeo credeva nell’esistenza dei demoni e nell’effettivo ripetersi delle loro manifestazioni. E così era perché lo attestavano tanto le Sacre Scritture (Mt 12,43, citato a p. 59), quanto l’autorità della Chiesa (p. 85). Ma ciò non impediva a Federico di professarsi profondamente scettico in relazione a una molteplicità di fenomeni, cercando il più delle volte di raggiungere una spiegazione antropologica per quanto credenze e dicerie (che, rossinianamente, «si moltiplicano a partire da una sola voce, come avviene per l’eco che rimbalza in valli e monti», p. 63) solevano attribuire all’azione di forze oscure. Lo scetticismo federiciano si applica quindi ripetutamente, ma caso per caso, secondo un metodo collaudato, che egli stesso si cura di esplicitare: «Ho intenzione di narrare un altro episodio, e una volta narrato ci chiederemo se sia potuto essere vero un fatto cui ormai l’opinione comune da credito» (p. 81).
Si sarebbe tentati di azzardare un’ipotesi: che Federico, uomo di Chiesa e di cultura, viva intensamente il dissidio tra le ragioni della fede, che gli impongono di credere al discorso biblico cristiano sul demonio, e la fede in una ragione, che gli prescrive di discernere tra realtà e superstizione. Ma fare di Federico, in qualche modo, un razionalista ante litteram sarebbe davvero un azzardo. Anche perché si dovrebbe poi dire di lui che ostenta la tipica credulità degli scettici, tanto indaffarati nell’applicare l’elaborato strumentario delle loro erudite intelligenze per smantellare ogni singola fantasticheria, da non accorgersi di condividerne appieno i presupposti ideologici di base.
Altrimenti, si dovrà riconoscere che, per quanto colto, avveduto e scrupoloso, Federico è comunque un uomo del suo tempo. Si spiegherà così perché egli sappia affrontare con sereno distacco un tema scabroso quale è quello delle manifestazioni demoniache (andando, come ben sintetizza Franco Buzzi, «oltre l’angoscia di Satana»); si capirà come egli sia in grado di abbracciare nel contesto della trattazione tutto il mondo conosciuto, senza invece limitarsi ai soli confini della cristianità. Ancora, si comprenderà la sua acrimonia nel perseguire coloro che – i «medici empirici», in primo luogo – operando al di fuori della scienza ufficiale si approfittano della timorosa superstizione popolare (p. 105); mentre si intuiranno le ragioni del suo ritenere la stregoneria una male sì esistito e in qualche luogo ancora esistente, ma ormai, alle soglie del XVII secolo, in Italia pressoché debellato (non così nel resto d’Europa, però; p. 95). Si comprenderà, d'altro canto, come un personaggio capace di tali e altre aperture, complete o parziali che fossero, non si dimostrasse poi in grado di estraniarsi dai più vieti luoghi comuni razziali (p. 103, per esempio), né di distinguere tra superstizione, idolatria e religiosità politeista di alcuni popoli extraeuropei. Qualcuno dirà che non sapere accettare la diversità, soprattutto in ambito religioso, è il segno di un atteggiamento retrivo. Ma volere anche questo, da un pastore della controriforma, sarebbe davvero pretendere troppo. Luca Ceriotti




Giorgio Cosmacini, Quando il diavolo era nemico della scienza, in «Corriere della Sera», Elzeviro Federico Borromeo e l’aldilà, giovedì 2 agosto, 2001, p. 33.

Quando il diavolo era nemico della scienza

II Seicento fu, com’è noto, il secolo che vide nascere quel movimento culturale che gli storici della scienza e delle idee definiscono «rivoluzione scientifica» (e associano, soprattutto in Italia, al nome di Galileo): un movimento di radicale trasformazione dei principi e dei metodi del sapere, che investì anche le scienze medico-naturali. Fu allora che la medicina incominciò ad acquisire quelle basi scientifiche che anche i medici di oggi pongono a fondamento della loro pratica clinica. Una logica stringente seppe aprirsi il varco fra le ridondanze esornative della retorica barocca; il rigore dell’esperimento e del ragionamento riuscì a farsi strada in una ridda di superfluità, d’iperboli, di orpelli, di bizzarrìe. Il Seicento, insomma, fu un secolo dalle molte ambiguità: antica dottrina degli umori corporei e nuova teoria del corpo macchina, pietra filosofale e chimica neonascente, magia da negromanti e filosofia di naturalisti, segreti cabalistici e divulgazione scientifica, dosi cospicue di ciarlataneria e prodromi di medicina sperimentale.
Fu anche il secolo delle grandi pestilenze, esemplificate dalla peste di Milano descritta da Manzoni e dalla peste di Londra descritta da Defoe. Dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano fu tratta qualche anno fa la Vita di Federigo Borromeo manoscritta da Biagio Guenzati, che ci fece edotti della «sollecitudine» con cui il provvido arcivescovo milanese seppe «procurare il pubblico bene» in sintonia con l’«operanza de’ decreti che sortivano dal Tribunale della Sanità». Dalla stessa Biblioteca A­brosiana esce ora, per opera di Francesco di Ciaccia, la limpida traduzione dal latino delle Manifestazioni demoniache (Terziaria editrice, 2001) vergate nel 1624 dalla mano dello stesso cardinale Federico. «In un secolo dominato da una specie di febbre satanica o di effervescenza diabolica», scrive il prefatore monsignor Franco Buzzi, il cardinale contraddice gli errori deliranti di una mentalità «che arrivava a vedere abbondantemente nei fatti più diversi la presenza malefica del diavolo». Quasi alfiere delle scienze medico-naturali, il Borromeo afferma che «gran parte dei casi che potrebbero ricondursi all’intervento demoniaco sono rapportabili anche a malattie fisiche».
Nello scritto borromaico si inquadrano «incongruenze» che sono proprie della «cultura del tempo, lontana anni luce dalla nostra», commenta nella postfazione Gabriella Cattaneo. «Le parti del mondo che differiscono completamente tra loro sono certamente il Meridione e il Settentrione», scrive il cardinale, che aggiunge: «II Settentrione ha cattiva fama per l’affluenza di Spiriti maligni»; esso «è la sede specifica dei demoni». Il Meridione non è da meno: «i meridionali», scrive, «sono più superstiziosi e ripongono maggior fiducia nella religione»; però in quella «scelleratissima materia» che è la «medicina empirica», che contesta la dottrina la dottrina medica imperante nelle cattedre, «i meridionali hanno prodotto una tale quantità di scritti che a mala pena si possono contare». Settentrionali o meridionali, «non ci si meravigli che i demoni abbiano un dominio così vario, per apprestare agli uni e agli altri una diversa occasione di peccato. Le pratiche stregonesche infatti sono state introdotte tra coloro che si riuniscono in nome del demonio; poi ci sono altri: quelli che si dilettano nelle scienze e nelle ricerche culturali; e altri, che godono nei conviti e nei piaceri libidinosi».
Non è in questa antropologia geografica equanime, che vede il Nord popolato da streghe e licantropi e il Sud da maghi e medici empirici, che può essere rintracciato l’«illuminato umanesimo cristiano» di cui fa cenno il prefatore. Ben più illuminato, come dimostrerà sei anni dopo con i suoi interventi contro la peste, il cardinale ci appare quando si sforza di rischiarare le menti e di placare gli animi, ottenebrati e turbati da testimonianze che parlano della capacità del Maligno di impadronirsi a suo piacimento di uomini e donne. «Credenze e dicerie», scrive il Borromeo, sono una «eco che rimbalza in valli e in monti» e che, quando «ha catturato le menti del popolo, più facilmente la gente presta fede alle visioni, va in cerca dell’arte dei maghi e allaccia rapporti coi demoni». La religiosità autentica, sembra dirci il cardinale, non si nutre di apparizioni, non è compatibile con pratiche miracolistiche, non ha niente da spartire con quei guaritori, sacri o profani, che vedono nei malati degli esseri posseduti dalle forze del demonio.
Il Borromeo crede nell’esistenza degli «ossessi» e nella virtù liberatoria degli esorcismi. Però cita Ippocrate: «Esistono malattie di tal genere per cui i malati ritengono di vedere i demoni che li assalgono». Sono malati «invasati o durante le fasi lunari, o per la bile nera, o per afflizioni». La demonologia federiciana si stempera e si problematizza nelle influenze dei ritmi naturali, del temperamento malinconico, della patologia mentale. Contro le deliranti credenze in voga, il cardinale Federico si assume, per certi aspetti, la luciferina parte del diavolo.



Luigi Moraldi, in «Jesus», Anno XI, giugno 1989, N. 6, pagine 94 s.

Può essere oggetto di molto interesse la versione italiana di un trattato sul “Vero e falso misticismo delle donne” scritto dal cardinale Federico, cugino di san Carlo, fondatore della Biblioteca Ambrosiana, e immortalato dal Manzoni. L’autore non si ferma su disquisizioni e su teorie, ma va diritto al pratico, volendo offrire i mezzi per il discernimento e la cura dei veri dai falsi spiriti, e, per casi concreti legati all’idea rinascimentale di mistica colorata, anche da effervescenze barocche; e, com’era naturale aspettarsi, offre anche un ragguaglio sullo scibile del Cinque-Seicento. Il cardinale spiega i fenomeni nel loro meccanismo naturale presupponendo che, salvo prova contraria molto evidente, abbiano un’origine d’ordine fisico e psichico. Molto valida, sotto ogni aspetto, è l’ampia introduzione (pp. 83). La ricchezza del materiale illustrativo che ne accompagna il vasto panorama storico-culturale, fa dell’Incontro col Drago un’opera interessante, di facile lettura e, soprattutto, piena di aperture e riflessioni sul tema del demonio che, restando apertamente sullo sfondo, vivacizza l’intero svolgimento del libro. Avvia per un sentiero insolito, ma non ignoto, a meditare e a riflettere su di una certa forza maligna che si cela all’interno di ogni uomo. Simboli, miti, fiabe, che accompagnano la storia culturale umana, ed emergono con chiarezza anche nella Bibbia, non sono frutto di fantasia malata, ma segni di quelle forze arcaiche e maligne che risiedono da sempre nel profondo di ogni uomo. Questo appunto narra il libro, percorrendo tutta la nostra civiltà occidentale con acutezza, senso critico e scortato sempre da note abbondanti e da bibliografia appropriata. Luigi Moraldi




Paolo Poli, Quel Borromeo, in «Studi cattolici», n. 489, Novembre 2001, p. 824.




Quel Borromeo


I biografi di Federico Borromeo, Rivola e Ripamonti su tutti, ci informano con dovizia di particolari sull’attività di studio del cardinale umanista, che letteralmente non aveva tregua; egli, per esempio, si era fatto apprestare una bibliotechina portatile che lo seguiva durante le visite pastorali e perfino durante le sedute di tonsura continuava nel suo lavoro, correndo il rischio «di essere offeso col rasoio per lo continuo moto del leggere e dello scrivere». Sappiamo inoltre, per sua stessa ammissione, che le modalità del governo della sua sete di conoscenza erano uno dei temi ricorrenti nei colloqui con il suo direttore spirituale, san Filippo Neri. Non stupisce dunque che alla morte di Federico Borromeo si siano potuti raccogliere ben 146 volumi di manoscritti, dai quali, nel corso degli anni, sono già stati tratti 127 libri a stampa, sugli argomenti più vari, a testimonianza dei multiformi interessi del cardinale. Un esempio eloquente dei lati meno noti, ma indubbiamente suggestivi, della produzione federiciana è questo Parallela cosmographica de sede et de apparitionibus daemonum. Liber unus, pubblicato a Milano nel 1624, che appare ora in prima traduzione italiana per opera di Francesco di Ciaccia, già traduttore del De estaticis mulieribus et illusis. Il testo è arricchito da puntuali note redatte dallo stesso traduttore in buon stile divulgativo ed è presentato da una significativa prefazione di mons. Franco Buzzi, Direttore dell’Accademia di San Carlo e Dottore della Biblioteca Ambrosiana; nelle ultime pagine del libro si legge infine una postfazione di Gabriella Cattaneo, docente presso l’Istituto di Scienze Religiose di Milano. Una menzione particolare merita la veste editoriale del volume che attualizza il testo seicentesco attraverso alcuni efficaci accorgimenti, primo tra tutti l’inserzione di cinque tavole illustrate, realizzate in chiave fantasy da Stefano Martino, un disegnatore dell’editrice Bonelli (Dylan Dog, Martin Mystere...). In questa stessa linea è forse da interpretare la contrazione del titolo italiano che tuttavia, nella nuova versione, non dà conto del vero tono dell’originale; esso infatti sviluppa riflessioni quasi più di carattere psicologico, antropologico ed etnologico che strettamente demonologico. Il demone indagato è sempre un demone di un luogo, sia esso inteso come ambiente (paludi, montagne, mari, boschi o deserti) o regione (Settentrione, Meridione, Oriente). Il cardinale ragiona con finezza e ricchezza di fonti in merito alla plausibilità delle manifestazioni attestate, applicando di volta in volta concetti di psicologia delle percezioni, nozioni di scienze naturali, considerazioni spirituali di ascendenza ignaziana, sottili analisi di antropologia culturale quale quella, sostanzialmente bipartisan, sulla differenza tra settentrionali e meridionali proposta ai capp. XIV e XV. Su tutto traspare poi un buon senso tutto ambrosiano che non manca, in qualche occasione, di assumere tonalità bonariamente umoristiche. [Paolo Poli]



     Segnalazione, in «Jonathan Steele», N.° 32, Novembre 2001, p. 4, «La posta di Jonathan Steele».

E ora, spazio a una segnalazione. Ci piace farvi conoscere una curiosa iniziativa che coinvolge anche un disegnatore della nostra Casa editrice. Si tratta di Stefano Martino, attualmente alle prese con le avventure di Legs Weaver ma che, in passato, ha fatto parte dello staff di Jonathan Steele. L’iniziativa è quella della prima edizione in italiano delle “Manifestazioni demoniache” del cardinale Federico Borromeo, un trattato in cui l’alto prelato (vissuto tra il XVI e il XVII secolo) cercava di spiegare molti casi, apparentemente imputabili a un intervento demoniaco, con l’ausilio della scienza e della medicina. Il testo, davvero interessante, è accompagnato dalle illustrazioni del nostro Martino e si può chiedere ad ASEFI Editoriale. Siamo sicuri che risulterà una lettura illuminante persino nel mondo magico e pieno di strane creature in cui vive Jonathan Steele.









Andrea Rognoni, Il cardinale che andava a caccia di fantasmi, ne «laPadania», sezione «Nord Cultura», martedì 13 novembre, p. 12.



[Immagine collocata nell’articolo per la recensione in oggetto, ne «laPadania», sezione «Nord Cultura», martedì 13 novembre, p. 12]








Il cardinale che andava a caccia di fantasmi

Francesco di Ciaccia è sicuramente uno degli studiosi di storia della spiritualità più originali e fecondi. Cacciatore di testi semisconosciuti, obliati o per troppo tempo ritenuti marginali, ha saputo ricostruire, tra l’altro, l’umore culturale ed ideologico che animava la Chiesa del Seicento nelle terre padane. L’ultima fatica riguarda appunto l’illustrazione della “dotta ossessione” del cardinal Borromeo per tutti quei demoni che infestano i comuni mortali.
A partire dal basso Medioevo ricercatori ed inquisitori, sia laici che ecclesiastici, si sono affannati a comprendere e classificare tutte le forme di quel curioso fenomeno che ancora oggi viene chiamato “possessione diabolica”. Secondo l’interpretazione psicologica e teologica di quegli illustri demonologi le forze del male non si limiterebbero a tentare le creature, ma arriverebbero a impregnare aria, case e luoghi naturali della loro essenza pervertitrice, riuscendo in certi casi ad entrare nel corpo di alcune “vittime”, pronte per una serie di mancanze e debolezze ad accettare la conquista fisica e mentale da parie di Belzebù e affiliati.
Ancora oggi i posseduti devono ricorrere ai cosidetti “esorcismi”, praticati da figure che in virtù della tonaca che portano possono per mettersi in forma e ruolo esclusivi di intrattenere una sfibrante sfida col Nemico, per scacciarlo definitivamente dai poveri corpi a suon di formule catechistiche.
All’inizio dell’età moderna, la lotta contro Satana si era fatta acerrima ed esiziale per il destino dell’Intera comunità dei fedeli (giustamente gli storici delle religioni hanno parlato di “città assediata”): cosi nell’agone decisero di entrare gli stessi responsabili di diocesi ed arcivescovati, arrivando a scrivere profondi trattati sui meccanismi “infestanti”.
Le “Manifestazioni demonlache” di Federico Borromeo (edizioni Asefi, 2001, lire 22.000, con prefazione di Franco Buzzi e postfazione di Gabriella Cattaneo) vengono tradotte dal latino (titolo originale “Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum”) e puntualmente commentate dal Di Ciaccia, con note che ci riportano volta per volta alla fonte classica o alla fonte biblica, sottolineando anche lo sforzo di serietà scientifica attuato da un cardinale che è diventato famoso grazie soprattutto alla parentela con Carlo e alla lotta caritatevole contro povertà, carestia e peste raccontata nei Promessi Sposi.
Borromeo spiega tempi e luoghi infestati dal demonio ed i suoi servi. Certi particolari risultano davvero illuminanti: «Evitano le cime dei monti, perché gli infelici che essi conducono con sé non facciano troppa fatica per la dura salita...». Ecco invece i demoni padroni dei luoghi solitari e sporchi. Ad esempio agiscono «immersi nelle cloache e negli stagni fetenti». Ma la residenza preferita è costituita dalle miniere di metallo.
Il cardinale illustra poi il modo col quale i fantasmi malvagi si insinuano nelle acque che beviamo nell’aria che respiriamo.
La parte del libro sicuramente più interessante è quella finale, in cui viene spiegata la diversa predisposizione dei vari popoli che abitano la terra all’infestazione e possessione diabolica.
L’opposizione psicofisica e caratteriale tra popoli settentrionali e popoli meridionali sarebbe stata studiata da Belzebù con la stessa cura impiegata dal medico o dallo psicologo per agire con più efficacia nel suoi interventi chirurgici a seconda di indole e costituzione. Cosi ad esempio si scopre che gli indiani cadono maggiormente nelle trappole delle “tentazioni diaboliche” legate alla carne e al sesso rispetto gli europei, riuscendo perfino a contagiare di ingordigia i “poveri occidentali” che hanno avuto la malaugurata idea di frequentare le loro terre. [Andrea Rognoni]




Alessandro Zaccuri, Spettri, visioni e altre manifestazioni infernali in un testo del fondatore dell’Ambrosiana. Dylan Dog va a lezione dal cardinal Federico, ne «L’Avvenire», 29 agosto 2001.

Spettri, visioni e altre manifestazioni infernali in un testo del fondatore dell’Ambrosiana. Dylan Dog va a lezione dal cardinal Federico

Chi l’avrebbe mai detto: anche il vampiro Lestat mastica un po’ di teologia. Lo scopriamo leggendo Il ladro di corpi di Anne Rice (Longanesi & C., pagine 480, lire 32.000), nel quale l’autrice più gothic-chic dei nostri anni costringe il suo tenebroso antieroe a destreggiarsi tra disquisizioni sulla natura dell’anima, dispute esegetiche sul Genesi e, più che altro, ardue ricognizioni nelle fonti dottrinali del Faust di Goethe. Una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del legame strettissimo che corre tra molta letteratura “di genere” e gli insegnamenti tradizionali della teologica cattolica, che non di rado capita di ritrovare – sia pure stravolti – nelle pagine di autori come la stessa Rice, una scrittrice che anche nella vita privata non disdegna pose da gran sacerdotessa di culti esoterici.
Non stupisce, quindi, che le illustrazioni della prima edizione italiana delle Manifestazioni demoniache del cardinale Federico Borromeo (Terziaria, pagine 140, lire 22.000) siano state affidate a Stefano Martino, uno dei disegnatori che solitamente fissano sulla carta le avventure dell’«indagatore dell’incubo» Dylan Dog. Ma la circostanza non deve trarre in inganno: tradotti e annotati da Francesco di Ciaccia (uno studioso che ha già dato importanti contributi di argomento secentesco), i Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum sono un‘opera che non concede nulla al gusto del macabro e ha anzi tra suoi obiettivi – come giustamente sottolinea nella sua introduzione monsignor Franco Buzzi – il superamento di ogni credenza superstiziosa, a tutto beneficio di un’interpretazione il più possibile «razionale» dei fenomeni presi in esame.
Non ci si poteva aspettare niente di diverso da un cardinale umanista come Federico, fondatore della Biblioteca Ambrosiana, ma anche pastore equilibrato e attento (sono, vale la pena di ricordarlo, gli stessi elementi che Manzoni mette in risalto nel celebre ritratto del Borromeo incastonato nei Promessi Sposi). Certo, anche il cardinale fu uomo del suo tempo, come dimostrano i pur rari processi per stregoneria celebrati nella diocesi ambrosiana durante il suo episcopato e come testimoniano anche numerose annotazioni delle Manifestazioni demoniache.
Il cardinal Federico, per esempio, non è disposto a credere che «gli spettri e le visioni che si presentano intorno alle miniere di metallo» possano essere spiegati facendo ricorso a «elementi e cause naturali», ma d’altro canto esamina con estrema prudenza leggende come quella del «Purgatorio di San Patrizio», la località irlandese dove – secondo la tradizione popolare – si troverebbe uno degli ingressi per accedere al mondo ultraterreno. In particolare, il Borromeo respinge dicerie e profezie sull’avvento dell’Anticristo, dimostrando di considerare ormai superata quella prospettiva apocalittica che, dopo essersi più volte affacciata nel corso del Medioevo, era di nuovo tornata con prepotenza sulla scena all’epoca della Riforma luterana.
Sarà anche vero (come annota in conclusione la storica dell’arte Gabriella Cattaneo) che le Manifestazioni demoniache sono un testo di «carattere eurocentrico», privo cioè di qualsiasi cautela antropologica nella valutazione di notizie provenienti da contesti culturali diversi. Ma si tratta, ancora una volta, di un elemento che appartiene a tutta la stagione di cui il cardinale Federico fu protagonista e interprete. Ancora un paio di secoli (l’opera andò in stampa per la prima volta nel 1624) e le rigorose argomentazioni da lui addotte avrebbero finito per alimentare la grande officina del romanzo gotico. Non senza essere passate attraverso l’insospettabile laboratorio del dottor Faust, lo stesso personaggio che, nel Ladro di corpi, attira l’attenzione dell’inquietante Lestat. [Alessandro Zaccuri]










1 commento:

  1. manifestazioni demoniache e da Dio a Satana tratta lo stesso libro di federigo borromeo

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