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telematici con riferimento all'opera in oggetto:
Federico Borromeo, De cognitionibus quas habent Dæmones liber unus, a cura di Francesco di Ciaccia, traduzione dal latino di Francesco di Ciaccia, Biblioteca Ambrosiana - Bulzoni, Milano - Roma 2009, pp. 282.
SUNTO
Il presente libro di Federico Borromeo, per la prima volta edito e per
la prima volta tradotto in italiano, costituisce la sua opera più impegnativa
in campo demonologico, poiché affronta un tema difficile: la capacità e la
modalità dei demoni di conoscere le cose, sia soprannaturali, sia naturali, e
anche il loro limite a tal riguardo. Tuttavia l’Autore accosta anche molti
ambiti concreti dei demoni: le loro potenzialità – e, anche in ciò, le
restrizioni a cui soggiaccioni – per quanto concerne il loro operare nel mondo
naturale e nel mondo umano. Molte concezioni appaiono ovviamente superate; ma
l’importanza dell’opera resta indubbia sul piano teoretico e sul piano storico,
dato che sono prese in considerazione molte opinioni e dottrine che vanno dai
filosofi classici agli scrittori coevi all’età di Federico Borromeo, tra la
fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento.
FRANCESCO DI CIACCIA
Nota introduttiva
Nel dare alle stampe la prima edizione del De cognitionibus quas habent Dæmones di Federico Borromeo, intendo
solo indicare la genesi dello scritto federiciano e rilevare una caratteristica
della sua stesura.
La questione che l’Autore si pose verteva, come esplicita il titolo
dell’opera, sulle conoscenze che i demoni possiedono dall’inizio della loro
creazione o a cui sono in grado di accedere nel tempo. La problematica era
annosa e notoria, come evidenzia l’opera stessa nella sua articolata indagine e
nel suo diffuso excursus storico che
presenta varie posizioni di filosofi antichi, di Dottori della Chiesa
medioevali e di teologi fino all’età moderna. Ma qui mi preme notare la
circostanza nella quale l’interrogativo sorse in mente all’Autore. Ciò avvenne
nel corso della stesura di un’opera, il De
ecstaticis mulieribus et illusis, stampata nel 1616, chiaramente connessa
con il suo ufficio pastorale ed episcopale che includeva l’onere di insegnare e
di dare direttive utili a chi avesse cura d’anime o comunque si trovasse a
trattare con persone “estatiche”[1]. La
circostanza risulta da un appunto del cardinale, vergato in un quaderno
manoscritto[2].
«Il pensare a scrivere questo libro ebbe origine da un dubio, che io
mossi nel 3° libro dell’estatiche, parlando di alcune parole, che proferite
furono dal Demonio, le quali dimostravano ignorantia, et poco conoscimento».
L’ufficio di pastore e di visitatore canonico, nelle sedi sia monastiche
e conventuali, sia parrocchiali, lo misero in contatto, in effetti, con
soggetti insidiati in modalità particolari dagli spiriti maligni. Furono questi
riscontri di fenomeni straordinari, definiti genericamente “estatici” – cui
egli attribuiva molta importanza e verso cui, se provenienti da Dio, nutriva
sommo apprezzamento, al punto da concepire una “gratia gratis data” la semplice
conoscenza di un soggetto estatico[3] – a
sollecitargli interrogativi pratici sul rapporto tra fenomeni “estatici” e
demonologia e, in particolare per quanto attiene al presente libro,
investigazioni concettuali e teoriche intorno ai poteri cognitivi di cui
dispongono gli spiriti maligni.
Opinione comune e semplificata era che il demonio, nella sua
macchinazione per indurre al male, fa assegnamento su quanto riesce a sapere
dell’uomo, a conoscerne le propensioni, gli impulsi, le immaginazioni, gli atti
e i fatti, insomma il suo mondo interiore ed esteriore. Ma esattamente che
cosa, quanto e come il demonio può conoscere? Il quesito rientrava in un ambito
concettuale meno semplice e scontato.
Altrettanto intuibile e assodato era il presupposto che per il confessore
e per il direttore spirituale è importante sapere che cosa passa nell’animo del
penitente e del discepolo, perché egli possa capire l’origine e la natura dei
loro vissuti straordinari. Al riguardo, Federico Borromeo aveva svolto
riflessioni e narrato molti casi, nel De
ecstaticis; ed il fattore cognitivo gli apparve così fondamentale nel
discernimento degli “estatici”, che egli non rinunciò a leggere il Proxeneta di Gerolamo Cardano – un
autore di cui dichiarava al contempo di non avere stima e di non seguire la
dottrina[4] -,
che insegnava a “scrutare” a livello di “scienza dell’animo” i segreti più
intimi dell’individuo.
D’altronde, Federico Borromeo espose a volte, con racconti anche molto
circostanziati, il processo e le modalità secondo cui aveva scoperto vari
inganni dei demoni che avevano “illuso” alcune donne[5]. Ma
se una mente umana può arrivare a tanta perspicacia, a quanto può il demonio
che, come sanciva la sacra teologia, è un angelo a tutti gli effetti
“naturali”?[6] In effetti l’angelo
conosce intuendo, entrando dentro l’oggetto conosciuto, in
modo perciò immediato, a differenza
dell’uomo che deve passare per la via mediata
del ragionamento e quindi con un processo che non solo richiede più tempo ma
anche che, passando da un concetto all’altro, è passibile di erranza[7].
Però, interrogando alcune donne “illuse” in fatto di esperienze
estatiche, Federico Borromeo ebbe il sospetto che il demonio fosse ben poco
accorto e astuto, in pratica poco intelligente, se poté essere smascherato
tanto facilmente con un po’ di acume umano; e ne aveva tratto, al momento, la
seguente conclusione, esposta in questi termini nel capitolo XIX del libro
terzo del De ecstaticis[8]:
«Constat item ex nostra illa narratione, Dæmonum sermoni stoliditatem, et
ineptias inesse, veluti sit genus illud ignorantiæ plenum».
In sostanza, il sospetto era che il demonio non conoscesse tante cose e
ne conoscesse male alcune, sia circa l’uomo, sia circa il mondo, se lui stesso
si dimostrava inconcludente in molte sue operazioni e se non era in grado di
contrastare efficacemente le tattiche di uomini illuminati intese a smascherare
i suoi tranelli. Ne nacque, di seguito all’enunciazione sopra riferita, un
capitolo specifico, il XX, sulla “ignoranza” dei demoni: «De inscitia Dæmonum».
«Quod omne antiquæ scientiæ lumen amiserint, haud equidem puto
concedendum esse, cum Sacræ Theologiæ decreto constet, Naturalia dona, sicut
initio fuerant, mansisse lapsis, atque damnatis. Rursus tamen, et loquuntur, et
faciunt ea, quæ humanus animus meras ineptias putet; saneque admiror ego,
quidnam sit causæ, quamobrem, in tanta rerum omnium notitia, quantam credimus
in Dæmonum esse natura, non potuerint homines scelerate curiosi pleraque ab
ipsis naturalia secreta cognoscere, præsertim ambigo, cur Astrologi, siderum
motus, rem tanta cura quæsitam non sint e sermonibus eorum explicati. Verum, ea
fortasse est causa, quod vetet Deus eos largiri scientiam suam ulli mortali
eadem prouidentia, qua vetat, ne pecunias cuiquam effuse largiantur. Inscitiæ
autem illius, qua sermo Dæmonum interdum abundat, et actionum ineptissimarum,
quas intueri licet, arbitror duas afferri causas posse; vel quia Deus ipse
tenebras offundat eorum lumini nostræ salutis causa, ne scilicet insidiosis non
capere artibus possint. Nam sicuti, qui noctu iter facit, eo tantum temporis
momento semitam videt, quo fulgur internitet, tenebrasque distinguit, ita
Dæmonum ex diuerso nimia perspicacitas est ad videndum, et intelligendum
exempto modico illo spatio, quo Deus eos obcæcat, ne nostros animos in fraudem,
atque inde in exitium inducant. Vel etiam ea est ineptiarum causa, quod
simulent imperitiam, ut ipsi facilius irretiamur; et arbitror ego, Spiritus illos,
qui Fauni dicti cum iocis, atque nequitijs, mortalium nonnullos, et
adulescentulas maxime circumsistunt, id agere modis illis inusitatis, et
absurdis, ut miseras animas ad peccatum illiciant».
In questo capitolo del De
ecstaticis erano già delineati i punti essenziali della questione: i demoni
continuano a possedere tutte le dotazioni naturali secondo la loro natura
angelica; tuttavia, siccome risulta che fanno e dicono cose così stupide ed
insulse da rivelare scarso acume intellettivo, è ragionevole presumere che Dio
abbia loro imposto un certo qual offuscamento cognitivo, allo scopo di impedire
che essi, di per sé assolutamente più intelligenti e quindi più sagaci e astuti
dei mortali, godano di condizioni troppo favorevoli nella loro implacabile guerra
contro l’uomo. Come seconda ipotesi si potrebbe anche supporre che essi
simulino imperizia e un poco di stoltezza, per ingannare meglio i poveri
mortali e trarli fraudolentemente nelle loro reti.
In ogni caso, la questione appariva, subito, gravida di dubbi. Ad
esempio, come è possibile che una natura che sia intelligenza pura, quale
quella angelica, dotata di intellezione intuitiva,
che conosce tota simul, “tutto
contemporaneamente”[9] l’oggetto posto innanzi al
lume intellettivo, possa perdere questa modalità di cui è costituita la sua
essenza stessa? D’altronde, se Dio può intervenire sulla sostanza degli enti da
lui creati e presupposto tuttavia che egli non abbia inteso mutare la natura
degli angeli decaduti – così come stabilisce la dottrina consolidata dei Padri
della Chiesa e dei teologi -, quali sono i modi con cui Dio interviene in
questa dinamica del conoscere dei demoni?
La questione andava perciò affrontata in modo differente dai consueti
metodi induttivi, fondati sull’esperienza pratica: andava affrontata ad un
livello teorico, mediante l’esposizione degli insegnamenti dottrinali e
attraverso un vaglio critico. Federico Borromeo si propose, appunto, di
svolgere questa operazione. Lo troviamo dichiarato nel medesimo appunto del
quaderno manoscritto, sopra citato, nel quale era indicata la circostanza in
cui egli ebbe a pensare di scrivere il libro stesso[10].
«In questo libro [De ecstaticis
mulieribus et illusis] lasciato habbiamo quelle cose, che giudicato
habbiamo trattarsi generalmente dalli Scolastici, et ne i libri di Teologia, et
habbiamo atteso à spiegare alcuni passi men communi degli altri, et meno
ordinarij».
L’indagine sulla “ignoranza” dei demoni prevedeva dunque uno studio che
sembrava allontanarsi dall’immediato fine pastorale, al punto che, in un altro
quaderno di appunti in cui egli tornò ad accennare alla genesi dell’opera,
sentì il bisogno di escludere ogni movente di “inutile e strana curiosità ”
dell’indagine, affermandone l’utilità spirituale, cioè il bene delle anime:
«Aliquid solatij accipient animarum / occasio libri ex libro de
extaticis. / Non propter curiosam vanitatem.»[11].
In effetti, la dissertazione sul sapere dei demoni e le successive
ipotesi su come i demoni possano essere coartati divinitus[12]
nella loro attività intellettiva, sia quanto all’oggetto, sia quanto alle
modalità del comprendere, si addentrano in sentieri fitti di presunzioni
sorprendenti, quando si stabilisce minutamente, e a volte con estrema
precisione, che cosa i demoni possano e che cosa non possano sapere; e in che
modo siano potuti giungere a certe verità , sia nell’ambito degli oggetti
naturali, sia a livello delle realtà soprannaturali. Uno degli argomenti più
delicati è, ad esempio, se, ed eventualmente come, i demoni conoscano verità simpliciter soprannaturali o quanto meno
quoad modum soprannaturali. Il
ragguaglio delle supposizioni avanzate solleva in effetti il dubbio che la
materia trattata inclini davvero ad una qualche “inutile e strana curiosità ”.
Nell’ambito degli oggetti naturali della conoscenza, poi, uno degli argomenti
più complicati è, ad esempio, se, ed eventualmente come, i demoni conoscano
l’intimo dell’uomo, e se, e come, ne conoscano i gesti e gli atti esterni. In
questo vasto campo la dottrina scolastica, che sta a fondamento dell’investigare,
sfocia in opinioni fattuali ed in ipotesi così particolareggiate, che inducono
al sospetto che, ancora, si vada incontro a “inutile e strana curiosità ”.
In realtà , non è per vana curiosità che l’Autore ha affrontato un così
complesso e delicato tema che spazia dalla teologia alla psicologia, dalla
dogmatica alla fenomenologia dell’arte magica. Infatti, sarebbe stato
certamente di consolazione per le anime timorose e pie sapere, ad esempio, che
il demonio non potrà mai penetrare nell’intimo dell’uomo, sia sul versante
cognitivo, sia su quello volitivo dell’animo umano; e che – risultato ancor più
consolante – il demonio non potrebbe entrare neppure nelle immagini della
nostra fantasia, se non sia l’uomo stesso a facilitargli questo itinerario.
La tematica dovette apparire all’Autore, dunque, tutt’altro che curiosa e
vana; e si comprende, per ciò, anche l’assillo circa l’intitolazione
dell’opera, su cui egli spese più di una riflessione.
Di primo acchito, proprio in base al motivo per cui l’Autore si era
proposto di approfondire questo aspetto demonologico, il titolo doveva
risultare intorno alla “ignoranza” dei demoni. In effetti, il dubbio sorto nel
libro terzo del De ecstaticis, al
capitolo XIX sopra citato, era che i demoni fossero, in realtà , ignoranti e il
successivo capitolo XX era intitolato, per l’appunto, con il chiaro e delineato
concetto «De inscitia». Tra gli appunti, tra cui un quaderno monografico, il
titolo focalizzava ancora l’“ignoranza” [13]. In
questo quaderno, un’annotazione permette di intuire il rovello sulla dicitura.
Vi si legge che il titolo aveva qualcosa di “buffonesco” e che poteva essere
frainteso; e a margine del foglio troviamo aggiunto che l’“iscrizione” era
stata cambiata.
«< Dicam in animo habuisse hanc inscriptionem
sed hac obiectione mutasse > Noto titulum habere scurilitatis aliquid: et
possit retorqueri […].»[14].
Attribuire, proprio nel titolo – che costituisce l’etichetta di una
trattazione -, l’“ignoranza” ai demoni avrebbe offerto una visione della loro
natura che implicava, quanto meno, qualcosa di strano («scurilitatis aliquid»),
cioè che fossero definiti, tout cour,
ignoranti coloro che, per la loro essenza, sono “intelligenze pure”, cioè
esseri costituiti di sola sostanza intellettiva. Tale designazione, posta proprio
in capo al libro, avrebbe potuto ingenerare non solo stupore ed incredulità , ma
anche fondati attacchi logici e teologici («et possit retorqueri»). Forse,
dunque, il titolo potrebbe essere stato cambiato sotto la pressione di rilievi
di tal genere («hac obiectione»). Sta di fatto che poi il libro fu intitolato
intorno non già alla “ignoranza” ma alla “conoscenza”.
La meticolosità a livello lessicale è stata ancora più sottile. Infatti,
il sintagma “le conoscenze dei demoni” avrebbe potuto dare ansa ad un equivoco.
Potendo il complemento di specificazione essere inteso sia in senso soggettivo,
sia in senso oggettivo o, con termini usati da Federico Borromeo, sia in senso
attivo, sia in senso passivo, non si sarebbe colto immediatamente se la
conoscenza in causa fosse quella che i demoni hanno di altre cose, ad esempio
del mondo fisico e del mondo umano, o quella che hanno gli altri, ad esempio
gli uomini, circa i demoni. Per cui apparve più idoneo un titolo
inequivocabile, “le conoscenze che hanno i demoni”:
«Ergo melius De cognitionibus varijs[15]
quas habent Demones. Neque dicendum De Demonum cognitionibus quia est equiuocum
uel actiue, uel passiue.»[16].
Nonostante la sottolineatura dell’aggettivo circa le conoscenze – le
“varie” conoscenze – e nonostante che lo stesso aggettivo sia stato ripreso,
nel medesimo quaderno di appunti sull’“ignoranza” dei demoni, come uno dei
titoli possibili[17], l’aggettivo – “varie”
(conoscenze) – non è entrato nel titolo del libro, che consta essere “De
cognitionibus quas habent Dæmones”. Prima della scelta definitiva e all’interno
del medesimo quaderno, successivamente all’appunto sopra riportato, sono state
tuttavia avanzate soluzioni similari. In questa ulteriore congettura sembra
risolto l’equivoco circa il soggetto del conoscere, poiché uno dei titoli che
sarebbe potuto risultare equivoco appare superato dalla successiva ipotesi
indicata:
«De uaria cognitione quam habent Demones. Titulus. Vel de scientia
Demonum. Vel de scientia, quam habent Demones.»[18].
Il termine “scientia”, applicato ai demoni, consta come sinonimo di
“cognitio” anche nel libro, benché vi prevalga decisamente quest’ultimo
vocabolo[19]. Ma va notato che il
termine “scientia”, ipotizzato qui per il titolo del libro, si ritrova in
appunti concernenti l’opinione di Gerolamo Cardano su questa materia: «Cardani
sententia de scientia Dæmonum mihi videtur his eius rebus satis expressa» ecc.[20], il
cui blocco di appunti, analitici e dissertativi, è stato intitolato proprio De scientia Dæmonum, sententia Cardani.
Ciò che va infine messo in luce è che, se gli appunti redatti prima della
stesura del libro riportano il titolo incentrato sulla “ignoranza” – l’idea
immediata e iniziale circa la questione che si era posta l’Autore -, gli
appunti successivi alla sua stesura, che costituiscono aggiunte alle opere giÃ
composte[21], si riferiscono al libro
ormai dal titolo “De cognitionibus quas habent Dæmones”[22].
L’alternativa tra “ignoranza” e “conoscenza/e”, della quale qui si tratta
a proposito del titolo, non era una questione soltanto di opportunità : era un
problema soprattutto di contenuti e di metodologia. Per mostrare l’ignoranza
dei demoni bastava dare conto delle loro inaccortezze palesate nei rapporti con
un direttore spirituale illuminato: rendiconto che in parte Federico Borromeo
già offriva – pur in modo occasionale e non organico – nell’opera che stava
redigendo, appunto il De ecstaticis.
Ma l’ignoranza è un concetto negativo e ha senso solo se consegue ad una
analisi della conoscenza; e il problema della conoscenza delle pure forme
intelligenti è complesso e complicato.
Il tema, pertanto, si ampliò notevolmente; ma soprattutto si complicò per
la necessità di argomentazioni dottrinali, a volte assai sottili. Le
annotazioni preparatorie per la stesura del libro lo rivelano[23].
Alcune annotazioni criteriologiche indicano che l’indagine doveva svolgersi, in
effetti, a tutto campo, cioè doveva essere estesa, come evidenziato da termini
significanti totalità e molteplicità («omnia», «multas»),
«Examina omnia genera cognitionum: et statue
omnia genera ignorantiæ quæ cadere possunt in illis generibus; et reperis
multas.»[24]:
un’indicazione rigorosamente osservata nella stesura dell’opera. Ma
l’esame doveva essere anche meticoloso, minuzioso, doveva scandagliare le
“singole” opinioni:
«Examina singulas sententias Patrum, de scientia
incarnationis. Vide locum Sancti Hilarij in
Breu. fol. 583 col. secunda in fine.»[25];
«In hoc opere perquire
minuta queque legendo et facias questiones ut fecit Cardanus et ut ego scio in arte tractandi eandem
questionem.»[26];
«Scolasticorum sententiæ explicandæ singulæ, per
dicta; per locorum collationes; per supposita
fondamenta in illa Doctrina.»[27].
Già quest’ultima disposizione sull’ esposizione puntigliosa della
dottrina scolastica e in generale le esigenze redazionali citate implicavano
un’impostazione critica da imprimere al lavoro, come esplicitato da voci
verbali significanti disamina disquisitiva, quali «perquire» (di cui sopra) ed
«excutiantur»:
«Excutiantur sententiæ Patrum de mysterijs
Incarnationis. Idem exequendum de sententijs aliorum; nam hoc modo erit diuersa
methodus a ceteris meis libris […]»[28].
In quest’ultima annotazione – che si trova applicata nel cap. XV – sembra
che venga ammessa una peculiarità metodologica che si distanziava da quella seguita
negli altri libri («diuersa methodus a ceteris meis
libris»).
Da questa precisazione non dobbiamo derivare che tra i libri di Federico
Borromeo non ci siano di quelli dal taglio dottrinale, magari improntati
all’istruzione del clero e all’educazione di tutti i fedeli; dobbiano invece
desumere che il “metodo” cui si fa riferimento nella citata annotazione si
configura comunque diverso, perché è concepito per un prodotto dottrinale in
senso stretto, cioè teorico, a livello discettativo. Il De cognitionibus è l’unico trattato demonologico di Federico
Borromeo che contenga, per lo meno, alcuni capitoli di tal genere.
Esso comprende processi argomentativi con esame e discussione della
dottrina degli autori, sia dei Padri, sia dei Dottori (secondo la norma, sopra
citata: «Scolasticorum sententiæ explicandæ»)[29], con
un procedimento dialettico che ricalca quello della trattatistica scolastica –
sequenza delle posizioni dottrinali e “risposta” a ciascuna di esse -, come
nella questione sulla conoscenza da parte dei demoni dell’animo umano[30] o
sulla conoscenza da parte dei demoni della specificità divina della
resurrezione di Gesù[31],
fino a spingersi allo studio variantistico di un autore[32].
Una trattazione così complessa e intricata ha comportato alcune lacune
formali e qualche disorganicità , meno marcate in altri libri demonologici del
medesimo Autore. Vediamo, prima, le sfasature circa l’organizzazione del
materiale.
All’inizio del capitolo XXXI si avverte che, in seguito, si procederà con
considerazioni più specifiche, cioè attinenti al tema del libro; in pratica, si
riprenderà il discoro sulla conoscenza dei demoni, sulle sue modalità e i suoi
limiti: discorso che, interrotto dopo il capitolo XX, ha seguito una via
collaterale.
«Hactenus nos ab vigesimo Capite orsi,
processimus quadam inductionis via. Nunc argumenta singulatim ea proponemus,
quæ propria sunt rationis eius, quam concludere propositum est; scientiam nempe
Dæmonum impediri diuinitus, et inhiberi ipsos, quominus arbitratu suo partem
animi intelligentem exerceant»[33].
La problematica esposta dal capitolo XXI al capitolo XXX verteva infatti
sull’azione dei demoni: vi si notava, in base a rilevamenti fenomenici, che
anche al “fare” dei demoni, cioè alla loro attività pratica, era imposto un
freno da Dio, così come era imposto un oscuramento alla loro attività cognitiva,
al “sapere”. In effetti, in quei capitoli intermedi il testo ha messo in luce il
potere dei demoni nei conflitti armati, il loro atteggiamento di fronte alle
minacce fisiche, la facoltà degli esseri incorporei nello spostamento dei corpi
e rispetto alle leggi naturali della sostanza aerea – con le attinenze relative
ai banchetti e ai balli stregoneschi -, infine rispetto agli interessi erotici
dei demoni e alla loro capacità procreativa.
Lo spostamento tematico era comunque ben giustificato, sia sul piano
logico, sia in senso consequenziale. In effetti il capitolo XX si concludeva
con una considerazione, circa gli angeli decaduti, sui loro “doni naturali” a livello generale, cioè che gli angeli
decaduti si rivelano depauperati di alcune potenzialità delle loro dotazioni
primigenie. Il seguito del discorso, perciò, poteva ben riguardare un aspetto
diverso da quello cognitivo, e cioè l’aspetto operativo delle facoltà degli
angeli decaduti.
Poi, dal capitolo XXXI ci si ricollega al tema specifico del libro: il
“conoscere” da parte dei demoni. E in effetti, all’inizio del capitolo XXXI è
tenuto presente, in modo esplicito, che dal capitolo XX si era proceduto su un
terreno, per così dire, di “esperimenza” (cioè sul piano constatabile delle debolezze e delle limitazioni fattuali dei
demoni ricavabili dal loro concreto
operare) e si dichiara che si riprenderà , ormai e di nuovo, lo specifico
filone tematico del “conoscere”.
Tuttavia, malgrado l’impostazione esplicitata, anche dopo questo capitolo
il problema del conoscere si conclude tre capitoli prima del termine
dell’opera. Quindi, tre capitoli prima della fine dell’opera la tematica
specifica, quella del “sapere”, è abbandonata e lascia di nuovo spazio ad
aspetti operativi dei demoni: il potere demoniaco sulle ricchezze materiali
della terra con annessi e connessi, vale a dire l’accrescimento e la perdita di
tali beni in linea generale, in riferimento sia ai demoni, sia ai semplici
mortali.
La mancanza di unitarietà risulta dal fatto che la sfera operativa
dell’attività demoniaca, pur collegabile al problema dell’attività cognitiva, risulta
affrontata con una frapposizione non giustificata: poteva e doveva essere trattata
senza frattura e successivamente alla trattazione sulla conoscenza. La
ragionevolezza di tale ipotesi trova fondamento nel testo stesso, poiché il
capitolo XXXXII – in cui si abbandona, di nuovo, per l’appunto, l’argomento
“cognitivo” – inizia proprio con il parallelo sull’argomento “operativo”, cioè
che i demoni sono inibiti non solo nella sfera del conoscere, ma anche in
quella dell’agire, cioè “perché non facciano o dicano quelle cose che
proclamano e vogliono, ma solo quelle che hanno potuto fare o dire”.
«Neque cognitione tantum sæpe priuantur
ipsa, sed ad agendum etiam constricti sæpe sunt, et impediti, ut non ea, quæ profitentur, ac volunt, faciant, aut dicant, sed ea
tantum, quæ vel facere, vel dicere potuerunt.»[34].
Se nel capitolo XXXXII, quindi, dopo la trattazione del problema
cognitivo dei demoni, è stato posto il parallelo con quello operativo, era
logico che tutta la tematica parallela della sfera operativa – intercalata dal
capitolo XXI al capitolo XXX – fosse collocata da questo punto in poi, cioè dal
capitolo XXXXII in avanti, e fosse letta unitariamente, per organica distribuzione
dei contenuti e per coerenza della trattazione.
Una disorganicità più settoriale – all’interno del primo blocco della
trattazione del “fare” demoniaco – risulta essere la seguente, anche con una
discrepanza tra il titolo di un capitolo ed il suo contenuto.
Il capitolo XXVIII ha svolto un discorso sull’inefficienza dei demoni nel
produrre cose materiali e ha concluso con l’esempio delle vivande imbandite nei
conviti stregoneschi: belle a vedersi ma di cattiva qualità [35]. Il
capitolo successivo, il XXIX, dal titolo «De
Humana Procreatione», con consequenzialità inizia applicando la fenomenologia
in questione – la consistenza delle cose materiali prodotte dai demoni – ai
corpi assunti dai demoni stessi, inclusa la sostanza seminale. Ma il proseguo
del capitolo con il preciso titolo indicato, mentre dovrebbe trattare della
“procreazione umana” dei demoni, narra, mediante episodi di apparizioni
demoniache a varie persone, quale sia la qualità del corpo assunto dai demoni e
non fa cenno alla “procreazione umana” dei demoni. L’esposizione sulla
generazione di esseri umani da parte dei demoni è svolta, quindi, nel capitolo
ulteriore, il XXX, intitolato «An Dæmones
procreare aliquid possint», il quale ha inizio con una programmazione che fa
pensare ad un ampio sviluppo. Infatti il capitolo sul problema “se i demoni
possano procreare” si annuncia in questi termini: «Ac
minutius etiam tractando totum hunc de procreatione humana locum, quæstionem
ipsam in dicta, siue Capita nonnulla, et pronuntiata ordine hoc diuidemus»[36]. Ma
alla fine del capitolo l’Autore taglia corto, giustificandosi col dire che ci
vorrebbe troppo spazio per affrontare la questione e rimanda ad autori – da lui
accennati – che ne hanno parlato a lungo: «De
qua re longum esset hoc loco disputare; tantum ego referre volui id, quod ijdem
illi pluribus affirmauere»[37].
Il capitolo seguente, il XXXI, abbandona in effetti tutta la parentesi
sul “fare” demoniaco e ritorna al tema specifico, come s’è detto: «[…] scientiam nempe Dæmonum impediri diuinitus, et
inhiberi ipsos, quominus arbitratu suo partem animi intelligentem exerceant»[38].
Un cenno globale, ora, ad alcune lacune nella scrittura. A questo livello
formale, una particolarità è costituita dal fatto che il testo è a volte
difficile da capire, a differenza degli altri scritti demonologici del medesimo
Autore. Non mi riferisco allo stile e al registro linguistico. È ovvio che la
presente opera, essendo, almeno in parte, saggistica e richiedendo una costruzione
sintattica argomentativa, presenta un periodare più complesso e articolato
degli altri libri demonologici e una scelta lessicale orientata verso voci
astratte. Mi riferisco invece a costruzioni sintattiche errate o strane[39], a
sviste nelle operazioni di modifica, peraltro aggrovigliate, con conseguenti
confusioni grammaticali e sintattiche, soprattutto quando sono state apportate
variazioni nel testo[40].
Anche siffatte disattenzioni evidenziano quanto quest’opera, giÃ
puntigliosamente e rigorosamente progettata, abbia poi affaticato gli estensori
– in particolare, il traduttore latino – per predisporre un testo più
complicato e analitico degli altri del medesimo tema.
Infine, mi corre l’obbligo di dare ragione dell’uso che viene qui fatto
dei quaderni di appunti – o “quaderni di studio” – federiciani, citati nelle
note al testo latino.
Il mio progetto finale – sempre limitatamente alla demonologia
federiciana – è quello di documentare i raccordi tra i libri stampati e gli
appunti manoscritti, rapportando tutto il contenuto degli stampati alla mole
degli scritti preparatori, per modo che emerga che cosa degli appunti consti
trasferito, e per contro non trasferito, nei libri stessi. Dalla correlazione
si dovrebbe evincere, sempre per la sola materia demonologica, quanto ha ben
studiato e dimostrato, a livello generale, Marzia Giuliani circa gli appunti
preparatori: essi raccolgono materiale che non necessariamente, e non in toto, è stato utilizzato per un libro
– e ciò vale anche per i quaderni monograficamente intitolati -; per contro,
alcune informazioni si ripetono in più di un “quaderno di studio” oppure
vengono usate per più di un libro, considerato anche il fatto che i diversi
libri ripropongono alcuni medesimi contenuti[41].
Un tal programma esige un’edizione a se stante – da cui, in seguito,
dovrebbe conseguire una piccola “enciclopedia” di tutto l’universo demonologico
negli scritti federiciani, nella connessione tra libri stampati e manoscritti
-, così concepita: trascrizione dei “quaderni di studio” monografici e
specifici e trascrizione di tutti gli altri “quaderni di studio” nelle parti connesse
in qualunque modo ai libri demonologici; riferimento al contenuto che, nei vari
libri, è entrato a far parte della stesura definitiva.
Per il momento ho inteso compiere l’operazione inversa, benché solo
parzialmente: connettere lo stampato ai “quaderni di studio”. Essa vuole
offrire, semplicemente, l’idea di un rapporto tra il libro e i “quaderni di
studio”, dei quali cito solo quelli specificatamente demonologici.
[1] «Ego
statui remedium adhibere huic nonnullorum inscitiæ (fauente Deo) viamque
tradere, qua possit aliquis ab omni periculo procul abesse» (De ecstaticis, I, cap. IV, p. 10).
[2]De ignorantia, Opuscula,
ms, foll. 139-140.
[3]
«Animaduerti ego, graues aliquando viros, excultosque moribus optimis, et
maximarum rerum scientia, illud optasse vehementer, ut inciderent in aliquem
eorum, qui Visionibus Ecstaticis illustrarentur […]. Sed quamuis nonnullam in
eo negotio diligentiam adhibuissent, mouerenturque non inani cura, sed
laudabili studio, numquam tamen id […] assequi potuerunt; atque, ut erant pij
homines, et religiosi, suis accidere peccatis aiebant, ne tantarum rerum ullo
modo participes fierent. […]; fallebantur tamen. Nam sicuti dona, quæ Naturæ
ordinem excedunt, et appellantur gratiæ gratis datæ, possunt contingere
diuinitus […], ita licebit existimare, notitiam eorum, qui sint præditi
muneribus eiusmodi, cÅ“leste munus esse […]» (De ecstaticis, I, cap. I, pp. 1-2). D’altronde, proprio il grande
apprezzamento per le esperienze “estatiche” – che Federico Borromeo riteneva
elargite in abbondanza ai fedeli della Chiesa cattolica dell’epoca, in tal modo
da Dio resa preclara (cfr. De ecstaticis,
II, cap. XIII, p. 85) – lo indusse a dedicare a tali esperienze, con le
relative e strette connessioni demoniache, varie opere a stampa e a redigere diversi
quaderni di appunti.
[4] «Non
ego Cardani sum admirator, eiusque opinionum assecla. Sed […] caput inueni
quoddam de Scientia animi, quo scilicet capite conabatur ille perscrutari
humani pectoris arcana, quæ multis occultata simulationum inuolucris, Deus ipse
tantum videt» (De ecstaticis, III,
cap. XI, p. 117). Per l’edizione italiana, Girolamo Cardano, Il prosseneta, ovvero Della prudenza
politica, Milano, Berlusconi, 2001. Nella Biblioteca Ambrosiana consta un
estratto (Della prudenza politica, D
481 inf., foll. 16-17), manoscritto, del Proxeneta
incentrato sull’uomo “prudente”: che fu, in effetti, un assillo constante di
Federico Borromeo. Ma è anche opportuno di segnalare, qui, sempre per accenni,
come al “laboratorio della scrittura” (ZARDIN,
p. 334) di Cardano, accuratamente studiato da Danilo Zardin, corrisponda il
processo scrittorio di Federico Borromeo (cfr. GIULIANI,
pp. 89-110).
[5] Cfr. De ecstaticis, III, cap. XIII, p. 128; III, cap. XIV, p. 134; III,
cap. XVI, p. 138.
[6] «[…] cum
Sacræ Theologiæ decreto constet, Naturalia dona, sicut initio fuerant, mansisse
lapsis, atque damnatis» (De ecstaticis,
III, cap. XX, p. 147); ma si veda l’intero cap. XX del De ecstaticis, pp. 148 s., riportato più sotto.
[12] Cfr. De cognitionibus, cap. XIII, pp. 60-61; cap. XXIX, p. 115; cap. XXXIV,
p. 129; cap. XXXV, p. 131.
[13] De ignorantia Demonum (scritto così,
senza dittongo), che costituisce il quaderrno manoscritto che qui cito con la
sigla De ignorantia, ms. (Si veda l’«Indice
degli scritti federiciani citati o menzionati»).
[14] De ignorantia, ms, 30, fol. 22. Per il
vero, le frasi di questa annotazione non sono integre, dato che non tutte le
parole sono leggibili; e non è espressamente precisato che si trattava del
titolo riferito all’“ignoranza”, benché sia ragionevole ritenere che lo fosse,
dato che tale è il titolo del blocco di annotazioni.
[15]
Sottolinatura nel manoscritto.
[16] De ignorantia, ms, 30, fol. 22.
[17] Cfr. De ignorantia, ms, 79, fol. 28, citato sotto.
[18] De ignorantia, ms, 79, fol. 28.
[19]
Quello di “scientia” vi compare, applicato nel modo sopra detto, cinque volte
soltanto.
[20] Sententia Cardani, fol. 5v.
[21] Essi
sono inclusi nei Quattro libri di
addizioni da farsi à diversi trattati composti dal Cardinale Federico Borromeo
(si veda Addizioni nell’«Indice degli
scritti federiciani citati o menzionati»).
[22] E
tuttavia in due casi su dieci lo indicano ancora con quello di “De ignorantia
Dæmonum” (cfr. Addizioni, «Codex
primus Additamentorum», fol. 272 e fol. 275). Sembra
che l’“ignoranza” in cui i demoni sono stati visti da Federico Borromeo lo
abbia profondamente colpito, se egli li tacciò perentoriamente, in un appunto,
«vere ignorantes» (De ignorantia, ms,
64, fol. 26, con rimando a Lorenzo Anania: «Demones uere ignorantes. Laurentius
Anania lib. 3 fol. 132.»), e dovette forse compiacersi dell’opinione secondo
cui a volte i demoni sono «ignorantissimi» (De
cognitionibus, cap. XXXX, p. 137).
[23] Si
tratta del De ignorantia Demonum
all’interno del codice Miscellanea uaria,
un blocco di 111 appunti raggruppati in 23 fogli, che costituisce il quaderrno
manoscritto che qui cito, come riferito più sopra, con la sigla De ignorantia, ms.
[24] De ignorantia, ms, 71, fol. 27.
[25] De ignorantia, ms, 12, fol. 20.
[26] De ignorantia, ms, 11, fol. 20.
[27] De ignorantia, ms, 4, fol. 19.
[28] De ignorantia, ms, 23, fol. 21.
[29]
Cfr., ad esempio, i capitoli VI, XII, XV, XXX, XXXV, XXXVII, XXXXII, per i
Dottori di teologia; il cap. XXXXX, per i Padri della Chiesa, sempre del De cognitionibus, di cui trattasi.
[30] De cognitionibus, cap. VIII.
[31] De cognitionibus, cap. XV.
[32] De cognitionibus, cap. XII.
[33] De cognitionibus, cap. XXXI, p. 121.
[34] De cognitionibus, cap. XXXXII, p. 147.
[35] De cognitionibus, cap. XXVIII: «Sed quam arcta sit potentia Spirituum malignorum,
ostendunt etiam ipsi conatibus suis, præstigijsque inanibus circa res eas, quæ
materia constant, sensibu<s>que percipiuntur» (p. 111); «Species
autem epularum amœnissima, et elegantissima ibi sit, proptereaquod Dæmones, cum
vera dapis habere nihil possint, nisi vile quidpiam, et vulgatum, subsidio
assumunt fictam imaginem elegantis, et opipari conuiuij, atque ita suis
illudunt» (pp. 112-113).
[36] De cognitionibus, cap. XXX, p. 117.
[37] De cognitionibus, cap. XXX, p. 120.
[38] De cognitionibus, cap. XXXI, p. 121.
[39] Ad
esempio: «Vnde Augustinus in Libro tertio de
Trinitate, Capite nono ex ineffabili potentatu Dei fit, ut quod possent mali
Angeli, si permitterentur, ideo non possint, quia non permittuntur» (De
cognitionibus, cap. XXXV, p. 130). «Postquam
vero talis extiterat equus, leue negotium fuit sistere eum Philippo Regi, quem
< cuiusque > eius inusitatæ rei
curiosum fore apparebat» (De
cognitionibus, cap. IV, p. 12), in cui la costruzione del verbo “apparere”
con proposizione infinitiva non è supportata dalla struttura dell’intero
periodo. «Ob eam nimirum quoque causam, minus
expositum esse Dæmonum insultibus, qui comitatus incedat, quam qui solitarius»
(De cognitionibus, cap. XXII, p. 92),
in cui il ricorso alla forma impersonale («expositum esse»), del resto non
necessario, è comunque strano.
[40] Ad
esempio, «Quod autem < interdum > in
peccati pœnam < priuetur Angelus varijs naturalibus donis > perierint
Angelo pleraque naturalia dona, quibus < nisi peccatum admisisset,
libere usus fuisset > ante peccatum clarus, excelsusque fuerat,
eaquæ deinceps proponemus argumenta
declarabunt» (De cognitionibus, cap. XX,
pp. 88-89), in cui quest’ultima proposizione: «eaquæ proponemus
argumenta declarabunt», è formalmente insostenibile. «Nouissime etiam <
simili quiddam accidit casui illi, quem > sicuti Tertullianus idem
refert, mulier fuit una ecc.» (De
cognitionibus, cap. XXXI, p.122): cambiata la struttura sintattica con
l’aggiunta di una proposizione relativa e l’eliminazione di una proposizione
incidentale, non è stata tuttavia modificata l’interpunzione in relazione alla
nuova struttura, per cui è rimasta la virgola dopo quella che era, in
precedenza, una proposizione incidentale («sicuti Tertullianus refert,»).
[41] «In
sede di inventio il cardinale ama
attingere contemporaneamente a tutti i materiali a sua disposizione,
effettuando prelievi dai suoi vari codici di studio.» (GIULIANI, p. 91); per
cui i quaderni di appunti «offrono materiali per più opere; singoli brani
vengono innestati nel corpo di testi diversi […]» (GIULIANI, p. 90).
RECENSIONI
Armando Torno, Le streghe di piazza Vetra: in nove finite sul rogo, in «Corriere della Sera», 2 agosto 2010, p. 5.
A Milano durante l’ episcopato di Federico Borromeo, tra il 1595 e il 1631, furono bruciate nove streghe (i loro processi sono conservati in un armadio di ferro nell’ archivio della Curia). Il luogo delle esecuzioni fu quello abitualmente utilizzato dalla giustizia del tempo: piazza Vetra. In città operava un esorcista di fiducia del cardinale, fra’ Francesco Maria Guaccio (o Guazzo), che scrisse il Compedium maleficarum (prima edizione Tradati, Milano 1608; la seconda stampata nel 1626 dalla tipografia dell’ Ambrosiana). Alla fine del secolo scorso Luciano Parinetto lo definì «squallidissima epitome persecutoria certo cara alla inquisizione milanese». Nel primo libro, una frase fa sobbalzare: «I malefici e le lamie (cioè stregoni e streghe) usano compiere l’ atto sessuale quelli coi demoni succubi, queste con i demoni incubi». Guaccio era nato a Milano nell’ ultimo quarto del Cinquecento e fu chiamato in diversi Paesi europei per la sua autorità nelle questioni di stregoneria. Praticava esorcismi nella sacrestia della Chiesa del Carmine. Queste notizie dobbiamo tenerle presenti riaprendo un’ opera di Federico Borromeo che ora, curata con competenza da Francesco di Ciaccia, ritorna in libreria: De cognitionibus quas habent daemones, ovvero Le conoscenze che hanno i demoni (Bulzoni Editore - Biblioteca Ambrosiana, pp. 288, euro 20). È il compendio milanese più interessante in materia e in esso si possono trovare le considerazioni del cardinale caro ad Alessandro Manzoni sulle menzogne e le astuzie che questi esseri infernali possiedono, sul loro amore per le cose turpi, persino sugli odori che li caratterizzano. Fa impressione leggere un passo come il seguente, quasi sicuramente proferito in una confessione da una strega meneghina, dopo aver ammesso la partecipazione a un banchetto con il diavolo: «I cibi non erano amari né tanto sgradevoli, ma proprio non avevano quel sapore naturale che sentiamo mangiando comunemente, e che infine ne seguiva disgusto e nausea». Milano, detto in parole semplici, non si fece prendere dalla febbre della caccia alle streghe che colpì non poche regioni d’ Europa, ma ebbe le sue vittime e soprattutto i testi che ne certificavano la repressione. Del resto, oltre la Vetra e il Carmine, nel capoluogo lombardo si credette di vedere il demonio arrivare in carrozza con paggi e sei cavalli bianchi il 16 agosto 1630 e andare in Duomo a discutere con i teologi. Sciocchezze? No, è scritto in un documento, tradotto anche in tedesco, recuperato da Ermanno Paccagnini in Ambrosiana tra le carte di Federico. Il quale, va detto a suo merito, proprio non credette alla storia. Anche se molti descrissero fisicamente quel diavolo.
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