Elenco
Riflessioni sull’educazione morale nell’adolescenza,
Circolo Culturale GRUXA, Milano, 1986.
L’educare come carisma religioso. Suor
Maria Anna Sala (1829-1891), 1 febbraio 1986, IX Seminario di Studi
e Fonti di Storia Lombarda: “Santità e
filantropia in Lombardia tra Otto e Novecento” (Milano 1 e 15 febbraio.1986),
a cura di Attilio Agnoletto, coordinatore Giorgio Rumi, partecipazione dell’Università
degli studi di Milano e della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Misticismo e mistificazione,
13 gennaio 1990, Circolo della Stampa, Milano.
La mistica cattolica,
1 febbraio 1990, Circolo Culturale B. Brecht, Milano, “Le religioni” (Milano 19 gennaio-22 febbraio), coordinatore
Attilio Agnoletto, partecipazione dell’Università degli studi di Milano, di
Firenze e dell’Università Cattolica di Milano.
Sacri Monti e mimesi mistica,
13 maggio 1990, Convegno Internazionale di Studi, Gazzada, “Sacri Monti: devozione, arte e cultura della controriforma” (Villa
Cagnola 10-13 mag. 1990), promomore Luigi Zanzi, Università di Pavia,
coordinatore Attilio Agnoletto, Università degli studi di Milano.
L’anticipazione escatologica di Gioachino
da Fiore, 8 settembre 1990, Giornate di Studio di San
Leo, “L’attesa dell’Anticristo: dalle ‘culture
della fine’ ai segni del Terzo Millennio” (San Leo 8-9 settembre 1990),
coordinatore P. A. Rossi, partecipazione delle Università degli studi di
Bologna, Ferrara, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Pisa, Roma, Sassari, Urbino.
Presentazione
di Sussurri e misteri di Alessandro
Villa, 20 ottobre 1991, Triuggio.
Il Salotto letterario nella tradizione
culturale, 26 ottobre 1991, Il Salotto Letterario di Lodi
(1980-1990), Lodi.
Il pensiero teologico di Andrea Alciato,
7 maggio 1993, Convegno Internazionale di Studio “Andrea Alciato “umanista europeo”, Alzate Brianza-Como 7-9 maggio
1993, partecipazione delle Università di Howard, Waikato, Frankfurt a. M.,
Köln, Bonn, Oxford, Aberdeen, Groningen, Perugia, Milano.
I temi della patria, della madre, dell’amore
e della morte nella letteratura. Introduzione ad alcune poesie,
20 maggio 1993, Circolo della Stampa, Milano.
Presentazione
di Wilma Minotti Cerini, La luce del
domani e Alla ricerca di Shanti,
23 novembre 1993, Casa della Cultura, Milano.
Presentazione
di Maria Saeli, Inventiamoci la vita,
1 dicembre 1993, Circolo della Stampa, Milano.
Lectio Ambrosii,
5 e 12 marzo 1997, Salone Previati, Milano.
Storia della Chiesa,
22 febbraio, 15 marzo, 22 marzo 1997, Turischool, Milano.
Presentazione
di D’Annunzio e le donne al Vittoriale,
1 aprile 1997, Centro Sociale Garibaldi - Circolo Leo Longanesi, Milano, con la
partecipazione di Giorgio Galli, Università degli studi di Milano.
L’immaginario francescano nella vita e
nell’opera di D’Annunzio. La vita privata di D’Annunzio al Vittoriale tra
francescanesimo, erotismo ed esotismo, 12 giugno 1997,
Incontri culturali FACS, Federazione delle Associazioni Culturali e
Scientifiche, Milano.
Presentazione
di D’Annunzio e le donne al Vittoriale,
30 settembre 1997, Lions Club, Milano Ca’ Granda, Milano.
Antonio Rosmini. La vita e le opere,
24 novembre 1997, Circolo Culturale, Bareggio.
Presentazione
di D’Annunzio e le donne al Vittoriale,
19 gennaio 1998, Associazione Necchi per la Formazione culturale,
Università Cattolica, Milano, con la partecipazione di Attilio Agnoletto e
Paolo Paolini, Università degli studi di Milano.
Turismo e poesia sulla sponda occidenatle
del Garda. Il Vittoriale degli Italiani, A.I.I.G.
(Associazione Italiana Insegnanti di Geografia) Lombarda, 27 settembre 1998, Il
Vittoriale degli Italiani, Gardone Riviera.
D’Annunzio al Vittoriale e il
francescanesimo, 8 aprile 1999, Incontri culturali
Unitre, Istituto Carlo Cattaneo, Milano.
Presentazione
di Giovanni Benzi, Quasi quanto una
favola, 18 giugno 1999, Centro Culturale, Vanzago.
D’Annunzio esoterico,
27 giugno 1999, con la partecipazione di Attilio Agnoletto, Università degli
Studi di Milano, e di Andrea G. Pinketts, Libreria Esoterica Ecumenica 2,
Milano.
La “Peregrinatio hierosolymitana” di Jost
von Meggen di Lucerna attraverso le Alpi (1542-1543),
4 settembre 1999, XV Convegno Internazionale di Studi Walser, Formazza.
La famiglia degli Arluno e “La peste” di
Giovan Pietro Arluno, 21 dicembre 1999, Assessorato alla
Cultura, Arluno.
Presentazione
di Giovan Pietro Arluno, La peste, 24
gennaio 1999, con la partecipazione di Giorgio Cosmacini, Università degli studi
di Milano e della Università Cultura e Salute del San Raffaele di Milano,
Libreria Tikkun, Milano.
Il pellegrinaggio di Jost von Meggen a
Gesuralemme, 5 febbraio 2000, con la partecipazione di
Attilio Agnoletto, Università degli studi di Milano, Libreria Ecumenica 2,
Milano.
Dalla peste del corpo alla peste dell’anima,
25 marzo 2000, Libreria Ecumenica 2, Milano.
Lo spirito umanistico del pellegrinaggio
a Gerusalemme di Jost von Meggen, 26 marzo 2000, A.L.S.J.R.I.C.R.I,
presidente Paolo Caucci von Saucken, Università degli studi di Perugia, San
Cristoforo, Milano.
L’avventuroso viaggio di Jost von Meggen
in Palestina e al Sinai, 22 maggio 2000, “Lunedì Letterari” di
Franco Manzoni, presidente di «Tutta Comunicazione», Osteria di Porta Nuova,
Milano.
D’Annunzio e le donne al Vittoriale,
24 luglio 2000, “Lunedì Letterari” di Franco Manzoni, presidente di «Tutta
Comunicazione», Osteria di Porta Nuova, Milano.
La
Peste
del corpo e della mente nell’opera del Manzoni,
28 novembre 2000, Sala Consortile A.R.E.S. della Banca Popolare di Milano,
Milano.
Presentazione
di Se fossi un uomo, di Alessandro
Madella, 10 ottobre 2001, Libreria Tikkun, Milano.
D’Annunzio. Un’intelligenza scomoda del
Novecento, 30 ottobre 2001, “Il Circolo”, Milano.
Presentazione
di Francesco d’Assisi. Una santità laica,
di Vittorio Dornetti, 30 novembre 2001, Libreria Odradek, Milano.
Il demoniaco secondo Federico Borromeo,
15 novembre 2001, Libreria Esoterica Ecumenica 2, Milano.
La predicazione cappuccina ne “I promessi sposi”,
Incontro-spettacolo La religiosità
popolare in Lombardia all’epoca dei “Promessi sposi” e le tradizioni del
territorio milanese, coordinazione scientifica di Bernadette Majorana,
con la partecipazione dell’attore Roberto Bregaglio, Itinerari di Cultura e
Spettacolo intorno ad Alessandro Manzoni, Lecco 11-12-13 settembre 2003.
Figure e poesia: immagini e parole su
Francesco lungo la storia, 13 novembre 2004, Centro Francescano
Culturale e Artistico Rosetum, Milano, per «Diocesi di Milano. Pastorale
Giovanile. Servizio Giovani», Via S. Antonio, 5, Milano.
Presentazione
di Gabriele e Francesco. Orbi veggenti,
di Francesco Di Ciaccia, 1 giugno 2007, con la partecipazione di Giorgio Galli,
Università degli studi di Milano, e Felice Accame, Libreria Odatrek, Milano.
Francesco d’Assisi, semplicemente uomo, 3 dicembre 2010, Circolo
Filologico Milanese, Milano.
Giovanni Pietro Arluno, medico archiatra milanese,
specialista della peste, martedì 8 febbraio 2011, ore 18,00, Circolo Filologico
Milanese, Milano.
Demonologia federiciana in due sue opere. Felice Accame e
Francesco di Ciaccia presentano De cognitionibus quas habent daemones liber
unus e Paralella cosmographica de sede et apparitionibus daemonum liber unus
di Federico Borromeo (Biblioteca Ambrosiana e Bulzoni editore), venerdì 11
febbraio 2011, ore 18, Libreria Odradek, Milano.
CONFERENZE/PRESENTAZIONI
Testo
Demonologia di Federico Borromeo in due sue
opere
Libreria
Odradek, Milano
11
febbraio 2011
Si dà per scontato che
Federico Borromeo credesse all’esistenza dei demoni. In queste due opere – inedite
e che costituiscono ciascuna l’editio
princeps da me editate – il demonio si presenta con due fenomenologie differenti.
La prima opera da me scelta
– e da me tradotta con il titolo Analogie
cosmografiche sulla sede e
sulle apparizioni dei demoni –, offre un
buon numero di racconti su come il demonio si manifesta, fisicamente,
attraverso i quattro elementi costitutivi del mondo – aria, acqua, fuoco,
terra.
Si tratta pertanto di un
libro in parte narrativo.
Una precisazione terminologica e fenomenica. Le apparizioni non sono da intendersi come configurazioni
visive, immagini a forma di demonio – così come tali immagini sono rappresentate
nell’immaginario collettivo. Possono darsi anche immagini siffatte, ma in
generale le apparizioni sono da
intendersi come modalità secondo cui il demonio si manifesta – o si crede che
si manifesti – percettivamente, cioè sono da intendersi come intervento demoniaco nel mondo fisico.
Il materiale del libro proviene
quindi dalla percezione sensoriale. Uno sterminato repertorio lo offrivano, ai
tempi dell’Autore, non solo le zone rurali dell’Europa nordica e la fascia più
colta dell’Africa musulmana, ma anche i Paesi dell’estremo oriente meno noto e
quelli dell’estremo occidente appena conosciuto; e lo offrivano i resoconti
mirabolanti di viaggiatori avventuratisi nell’estremo nord e nell’estremo
oriente del pianeta, nei deserti roventi e allucinanti, nelle acque dalle
tempeste apocalittiche e dalle sparizioni misteriose come quelle dell’attuale
“triangolo delle Bermude”; con le dicerie, facilmente ingigantite, circa figure
orrende intraviste tra il magma infuocato dei vulcani o circa voci gementi tra
i ghiacci eterni delle terre fredde, visto che – e qui s’introduce il giudizio
dello speculatore – le preferenze dei demoni sono decisamente per tutte le cose
“esagerate”.
Spiace non poterne
leggere, qui, un po’ di brani – ma ne offro qualcuno in Appendice.
Qui riferiamo il criterio
per stabilire la attendibilità o meno circa dette manifestazioni.
Innanzitutto, Federico
sosteneva che non basta che un fenomeno sembri contrastare con le leggi della
fisica, perché debba essere attribuito al preternaturale, nel caso al demoniaco.
Esattamente al contrario
si comportava, in genere, la gente. Tutto ciò che era o sembrava mostruoso,
innaturale, straordinario era rapportato ad un intervento demoniaco.
Federico osserva, per
esempio:
«Infatti, anche solo a vedere un pozzo che
sprofonda vertiginosamente, subito si crede che sia opera dei demoni» (cap. XII).
Oppure, a proposito di un profondo nevaio montano: “[…] strepiti e boati, che la gente ritiene essere voci dei
dannati [= demoni], non sono altro che effetti naturali” (cap. X).
A proposito di strane immagini che sembrava si
muovessero nell’aria, Federico osserva:
«Diodoro Siculo tramanda che, a ciel sereno, su
Sirte furono viste figure di animali che volavano, ed è verosimile che si
trattasse di sabbia e di pulviscolo dell’aria» (cap. XIII).
Il criterio vale a partire dalle notizie consacrate
dalla tradizione e dalla letteratura antica – «Ma quegli spettri che l’antichità
credette Dei marini e che noi diremmo demoni, a volte non erano che bestie e
mostri del mare. Ne tratta a lungo Plinio nel libro nono» (cap. XII) -, fino ai
resoconti confermati dalla fama comune e da persone serie. Ad esempio:
«[…] scrittori raccontano che nelle selve della
Norlandia e della Norvegia gli stagni gelati risuonano di varie voci, che si
ritiene essere dei demoni. Ma non sarà facile stabilire se siano realmente dei
demoni o siano generate dal ghiaccio […]» (cap. X).
In un secolo dominato da una specie
di effervescenza diabolica che vedeva abbondantemente nei fatti più diversi la
presenza del diavolo, questo criterio è degno di nota.
Mi sembra che accadesse allora quello che accade oggi,
presso coloro che, non appena vedono qualcosa di confuso o succede qualcosa di
non spiegabile immediatamente, immaginano ufo, extraterrestri, presenze aliene,
oppure fantasmi, spiriti di morti, esseri di un altro mondo.
La prima spiegazione deve
orientarsi sulla naturalità delle cose. Secondo Federico, a tal fine deve
essere di supporto fondamentale la conoscenza
scientifica, che poggia sulle conoscenze cui sono pervenuti gli
studiosi.
È notevole, in un periodo in cui prevaleva sulla
scienza il pensiero teologico – come nel caso della controversia galileiana –,
questa posizione federiciana.
Ad esempio afferma:
«Ma è fin troppo chiara la causa naturale che
determina quelle fiamme [vulcaniche], per pensare che dimorino in quelle sedi
proprio i demoni» (cap. XI). E:
«Ma le anomali piogge per cui piovono sostanze
ferrose, lapilli e lana si è potuto attribuirle a cause naturali piuttosto che
ai demoni, e altrettanto le pestilenze e le contaminazioni dell’aria infetta,
che tuttavia possono provenire anche dal demonio. In questo campo l’antichità
fu notevolmente superstiziosa […]» (cap. XIII).
Persino la medicina è compulsata per la congettura
dell’origine di certune manifestazioni paragonabili alla possessione diabolica:
«Gran parte dei casi che potrebbero ricondursi
all’intervento demoniaco sono infatti rapportabili anche a malattie fisiche. La
prova è in queste parole di Ippocrate: esistono morbi di tal genere, “per cui [i malati] ritengono di vedere i demoni che
li assalgono, a volte di notte, a volte di giorno”»
(cap. XX).
Quanto al fatto che
qualche fenomeno non sia spiegabile scientificamente, Federico rifletteva che
la scienza non può aver scoperto ancora tutto: ci sono fenomeni che potranno
essere compresi in seguito, e quindi occorre attendere il progresso delle
scienze sperimentali, per poter decidere se un fenomeno sia compatibile con le
potenzialità naturali.
Tuttavia, non mancano posizioni categoriche:
«Spettri e visioni che accadono nelle miniere non sono in alcun modo
attribuibili ad elementi e cause naturali, cioè al fuoco, ai venti, ai vapori,
e alle esalazioni e alla densità dell’aria, alla caligine, all’oscurità o ad
altri fattori del genere» (cap. IX).
La posizione perentoria si spiega con
l’aprioristica concezione secondo cui il “sotto-terra” è dominio degli spiriti
tenebrosi.
Il medesimo giudizio categorico è per il mondo
dominato dalla idolatria, tra cui trovava il primo posto quello del Nuovo Mondo:
«Infatti in quelle regioni le bufere e i venti si sviluppano per opera dei
demoni, e soprattutto in Brasile […]» (cap. XII).
L’idolatria infatti, per il cattolicesimo
soprattutto controriformistico, era ritenuta opera e dominio diretto del
demonio.
La seconda opera, da me tradotta con il titolo Le conoscenze che hanno i demoni,
risulta un saggio più speculativo e teologico. Le analisi sono spesso sottilissime;
io qui le ignoro.
È assolutamente necessaria invece una informazione
anticipata. Essa vale in parte anche per le manifestazioni del demonio nel
mondo fisico; ma è essenziale per le conoscenze – ma anche le operazioni
esterne – che il demonio ha circa i pensieri e
le azioni dell’uomo.
Quando si dice che il demonio sa, oppure fa,
qualcosa riguardo l’uomo, ciò non concerne necessariamente il demonio in sé,
quell’essere che è chiamato e definito tale. Può concernere esseri umani che
erano ritenuti asserviti al demonio. Tali erano gli stregoni, le streghe, gli
indemoniati, tra cui erano annoverati gli idolatri, e in genere coloro che
stipulavano patti col demonio.
La sintesi della questione sulla conoscenza che il
demonio ha riguardo all’uomo, cioè ai suoi pensieri e alle sue azioni, è che il
demonio può conoscere le rappresentazioni sensibili del pensiero – quali sono
le immaginazioni. Similmente, della volontà dell’uomo conosce ciò che è
deducibile dal suo comportamento esterno.
In pratica, il demonio è considerato più uno
spirito corporeo – animale razionale, quale è l’uomo – che un puro spirito,
quale dovrebbe essere secondo la teologia cattolica. A mio avviso è una
incongruenza sbalorditiva, se non si tiene presente che a conoscere e ad agire
nei confronti dell’uomo è in genere – a parte qualche circostanza – colui che
del demonio è uno strumento o servitore.
Appendice 1
Brani di racconti di fenomeni strani
da Analogie cosmografiche sulla
sede e sulle apparizioni dei demoni
nella traduzione di Francesco di
Ciaccia
I luoghi
solitari e fetidi. Capitolo VIII
Poiché dunque i demoni si
presentano sotto varie spoglie, non sempre le loro malefatte e gli attacchi
contro i viandanti sono evidenti; ed infatti nel suo diario di viaggio è stato
riferito da Nicolò de’ Conti che nell’Arabia Petrea apparvero demoni accanto
alle tende e, inoffensivi, avanzavano in gruppo per quei luoghi deserti. Essi
agiscono così, per superbia, perché si parli di loro e, al contempo, per trarre
qualche profitto o del corpo, o dell’anima. Anche presso i giapponesi si
mostrano numerosi demoni, quando le persone, spinte da speranza e da false
idee, si ritirano nei boschi e nelle selve per far penitenza. Mentre vagano per
i boschi, si fanno loro incontro spettri e varie forme di demoni. Le selve di
Lop godono di cattiva fama a causa di spettri siffatti, come riferisce, e tale
giudizio è costante, Marco Paolo veneto; ed egli dice che di simili spettri
pullulano i luoghi solitari nel regno di Erginul. Quando faceva il viaggio nel
Catai, gli si avvicinò una turba di demoni come se cercassero di divertire i
viandanti col suono di tamburelli (cap. VIII).
Le acque. Capitolo XII
Ora riferiamo un fatto davvero memorabile. Nel mare tra l’isola di Mona
e Puerto Plata c’è un’isola detta di Santo Domingo. Due navi, dopo aver salpato
da quell’isola e dispiegato le vele verso la Spagna, furono sballottate da una fortissima
tempesta; e poiché questa cresceva d’intensità, i naviganti, sconsolati, si
misero a invocare la
Vergine Madre con voci rivolte al cielo. Alle loro voci
risposero altre voci, somiglianti a quelle umane: «Che volete da questo Nume?
Perché lo invocate?». Dopo, credettero che le voci fossero di demoni
svolazzanti per l’aria, e alcuni li videro; sedata la burrasca, si trovarono
tutti incolumi.
Nel golfo di Urabá una nave, che era
salpata dal porto di Santa Maria ed era diretta verso altre isole, similmente
stava naufragando per una fortissima tempesta. Vi erano imbarcate due donne
molte pie, cui, contemporaneamente a prua e a poppa, apparvero demoni
dall’aspetto davvero orrendo; uno di loro, come tenendo il timone, proferì
queste parole: «Cambia la rotta», e l’altro: «Non posso». Al contempo fu udita
un’altra voce: «Buttala nel profondo del mare e affogala». L’altro rispose che
non poteva. Alla domanda del primo perché non potesse, rispose che lì c’era la Madonna di Guadalupe.
Udito ciò, tutti scoppiarono in lacrime ed esecrando i propri gravissimi
peccati si misero a invocare la
Madonna di Guadalupe, grazie al cui intervento credettero di
essere usciti incolumi dal pericolo, visto che la nave sembrava che già dovesse
andare a sbattere contro le rocce e gli scogli. Infatti, sollevata sopra le
rocce da un flutto più alto, fu spinta sul litorale ad oltre cento passi
dall’acqua, senza che alcuno morisse. Ma ho intenzione di narrare un altro
episodio, e una volta narrato ci chiederemo se sia potuto esser vero un
fenomeno cui ormai l’opinione comune dà credito. Lo tramandano non solo la
credenza popolare, ma anche la testimonianza di uomini seri con cui abbiamo
parlato.
Tal Bartolomé Carreño, spagnolo, scoppiata una tempesta dalle parti
dell’isola Bermuda, con la nave su cui navigava fu sospinto nel porto di Lisbona nell’arco d’una notte ed un giorno solo.
L’isola Bermuda è disabitata e selvaggia, vi avvengono improvvisi e frequenti
cambiamenti d’aria e quasi nessuna nave vi era transitata senza rischio; e
tanta furia del mare, ogniqualvolta si è verificata altrove, nel giudizio e
nella valutazione di uomini saggi è riferita ai demoni. Già qui sorge dunque il
conflitto tra le testimonianze serie e la ragione, per
il fatto che la distanza di quel percorso, ben nota a tutti, non può
essere in alcun modo coperta nell’arco di ventiquattr’ore; e se la nave avesse
impiegato sì poco tempo, era giocoforza che avvenisse a velocità tale, che i
naviganti sarebbero morti, l’imbarcazione si sarebbe sfasciata o infiammata e
tutto l’allestimento si sarebbe distrutto. Se si vuole comunque difendere il
racconto, bisognerà rifugiarsi entro quel concetto cui si è giunti anche altre
volte: che i demoni sono senz’altro in grado di condensare a tal punto l’aria
ricoprente, che essa diventa come uno scudo; e non c’è dubbio che ciò rientri
nella facoltà e nei poteri dei demoni.
Ma io ho il gran sospetto che il racconto abbia subito variazioni per
le frottole, la cialtroneria e il passar di bocca in bocca della notizia
stessa, fino al punto che la nave abbia compiuto la rotta veleggiando in pochi
giorni con grande meraviglia degli stessi marinai: in realtà, mai è arrivata al
porto in sì breve tempo. Dato che erano ben pochi i testimoni del fatto, per
loro è stato facile accordarsi sulle cose da dire, visto che nessuno poteva
confutarli, come non possono muovere obiezioni coloro che, lontano da casa,
raccontano cose mirabolanti sulla propria casa: non c’è nessuno infatti che
sappia cosa vi accada. Così, come gli uomini sono inclini ad ammettere prodigi
e miracoli, anche quei marinai hanno potuto esagerare l’accaduto con l’apporto
della credulità della gente. Infatti, anche solo a vedere un pozzo che
sprofonda vertiginosamente, subito si crede che sia opera dei demoni; e nella
medesima sciocca valutazione rientrano i pinnacoli e gli orridi dei monti, le
acque stagnanti. Non appena questa falsa credenza conquista gli animi, poi
aumenta sempre, e così si raccontano come veri avvenimenti falsi. Tuttavia, i
testimoni del detto episodio erano uomini molto seri, e il demonio è in grado
di compiere simili interventi; anzi, più strabilianti ancora, con il divino
permesso.
L’aria. Capitolo XIII
<Gli sconvolgimenti dei demoni nel terremoto> Anzi, i monti
franati sono detti opera dei demoni, immaginandosi la gente tali cose, a meno
che ciò possa a volte accadere per volere divino; e chi espone queste idee non
è tuttavia in grado di provare il fatto sulla base di alcun autore sicuro o di
un avvenimento certo; io non ricordo d’averne letto alcun esempio, eccetto
quello che menzionerò. Paolo Diacono narra che, sotto l’imperatore Anastasio,
un soldato che viaggiava non lontano da Neocesarea, poco prima che la città
fosse devastata dal terremoto, vide due soldati che si elevavano in alto sopra
la città e udì un terzo, altrettanto con la divisa militare, dietro i due, che
gridava di salvare l’edificio in cui si conservava il sepolcro di Gregorio;
così avvenne, e il tempio di Gregorio si salvò dalla distruzione.
Il fuoco e gli incendi. Capitolo XI
Diverse persone ritennero
che siano opera dei demoni quelle fiamme che vengono eruttate in vari luoghi
come nel nostro Etna. Ma è fin troppo chiara la causa naturale che determina
quelle fiamme, per pensare che in quelle sedi dimorino i demoni. E oltre a
quanto scrisse Plinio su tali luoghi, sono stati rinvenuti talvolta fuochi
sotterranei, sia al Settentrione, sia tra gli indi; e Olao Magno narra di
un’isola che ha una fossa stabilmente rovente, intorno alla quale gli spiriti
maligni appaiono ripetutamente agli abitanti e conversano con loro. Non potrei
non crederci, come pure sarei disposto ad ammettere che possa succedere che
intorno alle fiamme dell’Etna siano stati talora visti demoni aggirarsi qua e
là. In effetti nella vita di san Filippo di Agira si legge che le città vicine
a quel fuoco erano state infestate dall’incursione dei demoni che volavano in
massa per l’aria e si mostravano anche ai viandanti, finché furono domati per
virtù del Santo. Del resto è anche probabile che per volere divino sia accaduto
che siffatti spettri fossero visti intorno a quei crateri, perché fosse tenuto
vivo negli uomini il ricordo del Tartaro e ne fosse destato il terrore, motivo
per cui il medesimo Dio ha offerto altri spettacoli. Aristotele accenna a una
fornace nell’isola di Cipro al cui fuoco si liquefacevano i metalli, e dice che
tra le fiamme furono viste bestioline saltellare e volteggiare. In questa
storia saremmo di certo convinti dall’autorità del filosofo, se in un altro
passo egli non sostenesse che nessun animale ha origine dal fuoco e che il
calore grazie al quale gli animali hanno vigore non è fuoco né discende dal
fuoco; e altrove dice anche che il fuoco non può assolutamente putrefarsi.
Appendice 2
Alcuni appunti ai diavoli del cardinal Federigo
di Gabriella Cattaneo
[…] a me
tocca osservare alcune incongruenze di un testo che condivide inevitabilmente i
caratteri della cultura del suo tempo, […] sotto molti aspetti per noi
difficile da intendere.
La prima
difficoltà consiste nel carattere eurocentrico della cultura secentesca;
nonostante il recente approccio ai continenti extraeuropei, mancava al mondo
del XVII secolo una vera consapevolezza del “diverso”, automaticamente visto
come “strano”: e da strano a “malvagio” il passo è breve. Ne abbiamo ampie
prove nell’attuale società multietnica, che è ancora ben lungi dall’accettare
lo straniero come diverso ma di eguale dignità.
La
conoscenza del mondo extraeuropeo era, a quei tempi, limitata e soprattutto
mediata attraverso testi e cronache poco precisi e saturi di preconcetti, non
molto diversi dal capostipite Milione di Marco Polo; testi che, però, erano presi sul serio. La
meticolosità di Federigo nel cercare e citare le sue fonti sull’Asia, l’Africa
e le Americhe risulta, perciò, vanificata dall’inattendibilità delle notizie e
delle descrizioni antropologiche cui egli attribuisce piena fiducia.
Ecco,
quindi, comparire popoli afflitti da licantropi, considerati sotto influsso
demoniaco, in un vago Settentrione, in cui pare che i Lapponi sintetizzino
tutti gli orrori possibili e immaginabili. Eppure, tra improbabili lotte tra
streghe e licantropi fomentati dai diavoli, emerge un’interessante ipotesi: che
possano essere dei maghi a trasformarsi in lupi. Nella mitologia di alcuni
popoli, come i nativi americani, uno stregone che si è votato alla magia nera è
in grado di trasformarsi in animale: i Navajo chiamano appunto gli stregoni “lupi
navajo”, e analogo fenomeno esiste nell’immaginario dei lontani popoli delle
pianure, come i Lakota.
Ecco
popoli naturalmente atei, poiché mancavano due secoli alla nascita di un’antropologia
religiosa che stabilisse che nessun popolo è naturalmente privo di religiosità.
Ecco curiose notizie sui cinesi monoteisti che adorano un unico Re del Ciclo:
notizia che per altro merita un approfondimento.
Non è
forse possibile che tale credenza, diffusa nell’Europa secentesca, nascesse da
una confusione geografica e si riferisse al mito indo-tibetano del Re del
Mondo, abitante a Shambalah, la città fisica e metafisica nel contempo,
collegata a tutti i luoghi del mondo e al di fuori di esso? Non è, per altro,
improbabile che nella Cina, terra di diffusione missionaria dell’induismo-buddhismo,
il mito fosse diffuso e che lì ne abbia avuto notizia qualche viaggiatore
europeo.
Altrettanto
diffusa quanto la licantropia del Settentrione sembra a Federigo l’antropofagia
negli altri continenti; ed egli è certo che essa si colleghi alla presenza
demoniaca. Probabilmente non poteva pensare diversamente due o tre secoli prima
che l’antropologia spiegasse il cannibalismo come prevalente forma rituale, che
permette a chi si ciba di determinate parti di un defunto di ereditarne i
caratteri più ammirevoli, quali il coraggio in un nemico vinto o la saggezza in un antenato.
Altro
elemento chiarito solo più tardi in sede antropologica è la valenza ancipite
del serpente, mortale e salvifico, segno cosmico e totalizzante, scelto nel
linguaggio veterotestamentario per significare la tentazione e il peccato di
Adamo, e probabilmente non perché i serpenti sono fondamentalmente vermi come
afferma l’autore, ipotesi originale anche dal punto di vista zoologico.
Un interessante elemento
cui Federigo accenna, probabilmente senza poter possedere una precisa
conoscenza della mitologia nordica, è quello degli “omiciattoli pelosi”
presenti nelle miniere e da lui assimilati a demoni: essi, in realtà, sembrano
somigliare molto al “Piccolo popolo” della tradizione celtica o forse ancor più
ai folletti di quella sassone, custodi per l’appunto dei tesori custoditi sotto
la terra, compreso l’oro delle miniere. Sia gli uni, sia gli altri, sono
antropologicamente da assimilare a divinità ctonie. Anche se Federigo avesse
potuto averne nozione, tuttavia, li avrebbe considerati demoni, come fa di
tutte le divinità pagane.
È
interessante osservare come Federigo, che pure fu grande studioso della cultura
classifica, consideri divinità, semidivinità e personaggi classici come demoni:
tali sono per lui tutti gli oracoli, i fauni. In questa visione egli si allinea
con la più antica tradizione apologetica e patristica, che demonizzava tutti i
culti pagani, se non riusciva a trovare nei miti una così forte analogia con il
credo cristiano da assimilarveli (come nel caso di Perseo-S. Giorgio).
Vi è
però una curiosa debolezza da umanista: l’affermazione apologetica nei
confronti del mondo romano che non avrebbe praticato né permesso la magia. Ora,
chi conosce l’opera degli scrittori latini più noti, da Orazio ad Apuleio al Satyricon, non può ignorare che il popolo
romano era dedito ad ogni tipo di culti magici, bianchi e neri, e non sempre
solo a livello popolare. Evidentemente Federigo ha idealizzato l’antica Roma,
pur condannandone il paganesimo, e la vuole proporre come modello di società.
Altro
aspetto in cui Federigo riprende la cultura classica è la ripartizione della
parte principale del libretto, in cui la locazione dei diavoli è suddivisa tra
gli elementi costitutivi del cosmo, quali li avevano ipotizzati già i filosofi
presocratici: i suoi demoni della terra, dell’aria, dell’acqua e del fuoco
apparirebbero essenzialmente degli “elementali” ad un alchimista o in generale
a un esoterista, ma certo Federigo non sarebbe per niente soddisfatto di tale
associazione...
Vi sono
categorie di persone che Federigo aborre ed associa immediatamente alla
presenza demoniaca: i cabbalisti, i medici empirici, i filosofi naturali.
Che cosa
intenda per i primi rimane piuttosto oscuro: non sembra riferirsi all’antica
numerologia babilonese, per altro assunta pienamente dall’Antico e dal Nuovo
Testamento nell’uso simbolico dei numeri; e nemmeno alla Kabbalah come sapienza
iniziatica di ambiente ebraico, sviluppatasi nell’era volgare. Forse usa il
termine come sinonimo di magia? Di astromanzia o cartomanzia? Anche il termine “necromanzia”
è usato impropriamente, ma nel senso comunemente attribuitogli già dal
Rinascimento: II Negromante dell’Ariosto
si riferisce già ad uno stregone nero, e non ad uno dedito alla rianimazione dei
cadaveri grazie ad arti demoniache, come indica propriamente la definizione.
I medici
empirici sono l’oggetto comune degli strali di tutta la cultura
artistotelico-tomista del Seicento, come i filosofi naturali, ovviamente
empirici e non aristotelici: la testimonianza migliore è data dall’opera di
Galileo: Federigo, quindi, si allinea perfettamente alla cultura del suo tempo,
cosa inevitabile per un uomo di fede per cui la cultura aristotelico-tomista è
l’unica veridica ed ortodossa.
La
condivisione dei presupposti culturali del tempo è evidente anche nella
citazione della teoria degli umori, anche se il collegamento tra umore
melanconico e pratica della necromanzia è un’osservazione aggiuntiva.
Perfettamente
coerente nella sua logica, certo più secentesca che umanistica, è la concezione
che i demoni siano brutti, sporchi e piuttosto schifosi, come gli idoli,
naturalmente, perché vogliono farsi temere più che amare, per contrapporsi a
Dio che desidera essere amato. La stessa concezione aveva spinto gli artisti
medioevali a rappresentarli come mostri, draghi e minacciosi felini, mentre il
Rinascimento aveva adottato una concezione opposta: quella della bellezza e del
fascino del diavolo, certo più efficace per indurre l’uomo in tentazione
rispetto all’orrore. Infatti nell’arte rinascimentale la testa di drago del
serpente attorcigliato all’Albero della tentazione era stata sostituita da una
graziosa testa umana e talora anche da un tantalizzante busto femminile (come
in Paolo Uccello, van Eyck, Michelangelo e moltissimi altri).
Due
serie di osservazioni appaiono però, a chi scrive, meno coerenti e spiegabili:
quella riguardante i poteri dei diavoli sulla natura e quella sulle loro
preferenze per i luoghi solitari. Come mai i diavoli, nei sabba (su cui
curiosamente Federigo non si sofferma, citandoli quasi di passaggio) non hanno
potere di rinnovare il verde dell’erba, ma hanno quello di addensare l’atmosfera
tanto che ci si possa ballare sopra sospesi a mezz’aria? E come mai, se amano
tanto i luoghi solitari, come si dice per metà del libretto, in mare non si
aggirano al largo, ma lungo le coste abitate, cercando i luoghi dove c’è gente?
Pubblicato
in Literary.it 2(2011)
D'Annunzio al Vittoriale e il francescanesimo
Università delle Tre Età
Unitre, Milano
8 aprile 1999
Dal convento di Michetti al “convento” del Vittoriale
D’Annunzio aveva la mania dei simboli: cambiava nome a persone e a luoghi. Sulla base di tale tendenza, il vezzo di richiamarsi al mondo francescano dipese dal fascino di Francesco d’Assisi; ma non va sottaciuto un fattore biografico. Questo fattore spiega in parte tanti riferimenti al mondo francescano da parte di d’Annunzio.
Quand’era studente al Cicogna di Prato, nei suoi ritorni in Abruzzo si legò ad un gruppo di amici nella casa di Francesco Paolo Michetti, a Francavilla al Mare, che vi avevano creato un “cenacolo” artistico. La casa – acquistata nel 1883 – era detta Convento. Era detta così, perché era proprio un convento. Fondato dai frati minori osservanti nel 1490 e intitolato a Santa Maria di Gesù ma poi da d’Annunzio denominato Santa Maria Maggiore, fu soppresso nel 1811 e, definitivamente, nel 1866. In un primo tempo, tutto restò inalterato, compreso l’orario delle campane.
D’Annunzio, lì chiamato “il Frate”, si rifugiava nel Convento per scrivere[1]. Lì aveva la sua cella per studiare: “ignudo asilo” con “sedia di abete rozzo […], tavolo e branda (Via crucis), “sede dell’Arte Severa e del Silenzio” (A Francesco Paolo Michetti). E lì visse i suoi “giorni migliori” («Contemplazione, «XI aprile MCMXII»).
Nel Convento c’era l’Oratorio. A Cargnacco, nel 1923 era detta Oratorio una stanza, sul cui camino erano incise le lodi del Cantico a frate foco e nella fontanella le lodi a sorella acqua.
Alla Capponcina era chiamata “refettorio” (come nei conventi) la sala da pranzo, dove d’Annunzio mangiava sulla “semplice e massiccia tavola francescana” (Ad Annibale Tenneroni), “lunga e stretta” (Regimen). A Saint-Dominique consumava i pasti nella “camera monastica” (La Leda senza cigno). Al Vittoriale, prima che vi fosse realizzata la sala da pranzo della Cheli (1927), il tavolo per gli ospiti era “mensa francescana” – come era “mensa più che francescana” il suo tavolino da pranzo, di legno (Di Ciaccia, p. 6) – mentre per il luogo stesso di refezione riprese il termine “cenacolo” (Taccuini, CXLI, 1925).
Alla Capponcina va indicata un’altra mania: la campanella che dava il segnale della refezione, come nei conventi (Fortini, p. 79). Da notare che la Capponcina ebbe un’aria “conventuale”, almeno finché ci fu la Duse (1904) – poi divenne mondana con Alessandra di Rudinì (Nike), nell’architrave della cui camera era però inciso Clausura (con significati, tuttavia, sempre mistico-erotici, come era imprescindibile e inevitabile, nella nomenclatura e nell’esperienza esistenziale di d’Annunzio).
I conventi francescani avevano un orto; e lo aveva il Convento di Michetti. A Cargnacco d’Annunzio diceva a Maria Luisa Casati Stampa, detta Coré, il 23 febbraio 1922, “francescano” il terreno intorno alla casa (Andreoli, p. 591).
A Cargnacco egli sembra essere passato da convento a convento, nel suo immaginario. A Michetti, nel 1925: “O amico, il perpetuo rimpianto del convento sul mare fa triste il convento sul lago”.
La mania della nomenclatura francescana non fu dunque stravaganza inspiegabile. Ciò non toglie che fosse, a volte, del tutto avulsa dal significato originario.
Denominazioni francescane di luoghi e di persone
L’invenzione più suggestiva fu la “Porziuncola”, la villa della Duse vicina a quella di d’Annunzio, a Settignano. Il nome, scelto dalla Duse “votata al Santo d’Assisi” (Caliaro, p. 52), andò a genio anche a lui, se in un primo momento egli chiamò “Porziuncola” la primitiva casupola di Cargnacco (Fortini, p. 168).
Porziuncola, così detta dalla località in cui sorgeva, era la chiesetta abbandonata che Francesco restaurò con le proprie mani: il luogo a lui più caro. Lì volle morire.
Ma ciò che colpì d’Annunzio era l’infuocato pranzo cui Francesco invitò Chiara, appunto alla Porziuncola: i dintorni sembravano bruciare! Egli lo lesse nel capitolo XV de I fioretti di san Francesco, lo rammentò ne Le vergini delle rocce e nel 1919, in Altri taccuini, 45, lo adattò a sé: “Il tetto basso della salvatica non arde a somiglianza di Santa Maria degli Angeli?” (L’amore). La denominazione non aveva a che vedere con Chiara e Francesco: ne aveva, invece, con il connubio radicale tra mistico ed erotico secondo la mentalità e la sensibilità di d’Annunzio[2].
A Cargnacco chiamò San Damiano una villetta nel giardino: il nome del monastero di Chiara, dove Francesco compose parte del Cantico; Rivotorto, un altro luogo, in memoria del paese in cui Francesco d’Assisi il 9 novembre 1210 mise pace tra i concittadini di Assisi.
Con le donne egli era volentieri Frate Focu, e così a volte era chiamato da loro, come ad esempio “La sirocchia Bianca a Frate Focu, per le immortali scritture” – gli fu scritto a Fiume l’1 marzo 1920 (Antongini, p. 361). Con chi era legato al francescanesimo si firmava “frate Gabriele”, magari col toponimo (“da Cargnacco”) secondo l’uso dei frati minori antichi e dei cappuccini contemporanei. Particolare denominazione fu “frate Còclite”, ad esempio ad Arnaldo Fortini (Fortini, 154 e 169).
Denominò “frate” anche persone particolarmente meritevoli. Il tenente Elia Rossi Passivanti, legionario, ferito a Fiume, fu “Frate Elia”, “Frate Elia mutilato” (Altri taccuini, 46, 1919-1920;Taccuini, CXXXVI, 1920). Ma più interessante fu l’attribuzione di “fra Ginepro” a Gino Allegri.
Il Ginepro storico, citato nel capitolo XLVIII de I fioretti di san Francesco, era diventato mitico grazie a una Vita di frate Ginepro.
Ai funerali del pilota Gino Allegri, d’Annunzio spiegò:
“L’antico suo fratello in Cristo […] offerì ordinatamente ogni suo giorno silenzioso all’amore di Dio. Questo solitario e taciturno pilota diede il primo dì per l’amore d’Italia e il secondo e il terzo e il quarto, fino all’ultimo dì, per l’amore d’Italia. […] / Quale pietra porremo noi sopra la fossa di questo asceta ed eroe veneto, o piloti?
[…] Un giorno, nel Monte della Verna, l’uomo santo d’Ascesi comandò al suo prediletto che lavasse la pietra; e gli disse: – Lava questa pietra con l’acqua. – Poi disse: – Lavala col vino. – E fu fatto. Infine disse: – Lavala col balsamo. – E il frate rispose: – O dolce padre, come potrò io avere in questo tanto selvatico luogo il balsamo? – / Gino Allegri, per fare onore al nome che gli è stato dato, si è fatto crescere una barba da minore cappuccino; ma, se si togliesse quest’ingombro posticcio, apparirebbe col suo delicato profilo giovanile, «come quel fanciullo ricevuto nell’Ordine, il quale si ardì segretamente di legare la corda sua con la corda di San Francesco»”, con riferimento al capitolo XVII de I fioretti di san Francesco.
Una denominazione di particolare sensibilità fu quella di “San Francesco” assegnata a un francescano qualsiasi. Affiorò spontanea, nel Cimitero di San Michele a Venezia custodito dai cappuccini (Taccuini, XCIII [1916]).
Poi l’appellativo di “Suora”. Con connotazioni diverse. Renata, la figlia naturale, era “suor Acqua” (Sonnolenza): immagine evocante il Cantico. Le donne di servizio avevano l’appellativo di Suora, preposto al loro ufficio o al nome.
“Sirocchia”, rievocante I fioretti di san Francesco, connotava invece tenero rispetto.
Più «francescano» nel lessico ma per nulla nel significato, l’uso di badessa e di clarissa. Allo chalet Saint-Dominique, la donna occasionale era “gatta di passaggio”; al Vittoriale, “badessa di passaggio”. La qualifica di “clarissa” era riservata, invece, alle dirigenti: equivaleva a dedita interamente al suo signore: come Chiara d’Assisi nei confronti di Dio tramite Francesco d’Assisi.
Chiamava “fratello” chi egli sapeva molto affezionato a san Francesco, come Arnaldo Fortini – “mio primo fratello in Santo Francesco” (7 novembre 1923).
Chiamò “fratello” e “sorella” anche altri esseri viventi, e inoltre esseri inanimati e fenomeni naturali, a volte a imitazione di Francesco d’Assisi, come quando, rievocando due compagni uccisi, s’interrogò: “«O sorella, perché due volte mi hai deluso?» (Quando Sirenetta e È la Pasqua di Resurrezione), riferendosi a “sorella morte” di francescana memoria.
Usava poi il motto “Pax et bonum”, magari integrato con “Malum et Pax”: che, secondo Arnaldo Fortini (Fortini, p. 190), significava “ricevere il male ed essere in pace”.
Nomenclatura a parte, forse agiva qualcosa d’altro, in d’Annunzio. Non è bastante l’estro vanesio a spiegarne i riferimenti francescani. Né lo è il soggiorno nell’ex convento. Del resto, lo chalet in cui visse gli anni francesi più importanti – ben cinque – era “Sotto il titolo di San Domenico” (Regimen).
Affinità immaginifiche francescane: gaiezza e indulgenza
D’Annunzio e Francesco non s’assomigliavano affatto. Ma qualche piega dell’indole del «Giano bifronte», che fu d’Annunzio, gli fece provare qualche simpatia per Francesco. A suo modo. Ovviamente.
Francesco voleva che i suoi frati fossero ilari e garbatamente allegri e raccomandò loro che si guardassero “dal mostrarsi tristi all’esterno e oscuri in faccia” (Regola non bollata, cap. VII). Redarguì un compagno che, afflitto per i propri peccati, andava in giro con aria triste e faccia mesta: il problema se lo vedesse per conto suo con Dio, osservò, ma “alla presenza mia e degli altri procura di mantenerti lieto” (Leggenda perugina). D’Annunzio dovette essere colpito da questa attitudine francescana, se in uno dei suoi libri della Vie de S. François d’Assise di Paul Sabatier – addirittura situato nella Stanza del Lebbroso, la camera delle ricorrenze di pena – annotò: “la gaiezza”.
D’Annunzio esprimeva la gaiezza nelle forme della facezia giocosa. Poiché tuttavia soffriva di malinconica, si propose: “E serberò fresca la vena inestinguibile del mio riso, pur nella peggiore tristezza” (A Mario da Pisa). Quando poi era così afflitto da non poterlo celare, curava di nascondersi, tanto da poter dire: “Io ho saputo accordare il mio riso con tutti gli aspetti del mio soffrire” (Regimen). Francesco, quando era troppo angustiato, “sfuggiva la compagnia dei fratelli, perché […] non riusciva a mostrarsi loro nella sua abituale serenità” (Leggenda perugina).
Ovviamente, anche in ciò le prospettive erano differenti.
Ancor giovane, Francesco, di “animo gentile”, respingeva “tutto ciò che potesse suonare offesa a qualcuno” (Vita prima, 2). Nella vita quotidiana, d’Annunzio era comprensivo: aveva le sue stizze, ma non era capace di rancore. Un suo traduttore tedesco, bombardando Venezia, avrebbe preso di mira la Casetta Rossa di d’Annunzio sul Canal Grande. Dopo la guerra, quando d’Annunzio lo rivide, gli ricordò le bombe sganciate sulla sua casa, lo abbracciò, gli disse: “Avete fatto benissimo. […] Vi stimo e vi amo più di prima” (Antongini, p. 522). E tacitava bruscamente chi denigrava altri. Ci fu chi arrivò a pensare che il miglior sistema per rendergli simpatico qualcuno era di parlargliene male (cfr. Antongini, pp. 46 s., p. 227). Se perse la sua delicatezza d’animo, lo fu per motivi eccezionali.
Del resto, egli non scambiò la dolcezza per bonarietà, e a volte fu assai duro. Anche la durezza di Francesco fu a volte carica d’irritazione violenta contro i suoi frati. Mi limito a segnalare un intervento occasionale. Due frati facevano mostra di virtù, coltivando la barba molto lunga. A ciò s’aggiungeva la circostanza che il fatto aveva assunto rilevanza pubblica: ne erano stati biasimati da un vescovo. Saputolo, Francesco proruppe in una feroce recriminatoria, e su due piedi maledì i due frati (Vita seconda, 156). L’episodio più sconcertante resta il seguente: saputo che una scrofa aveva ucciso un agnellino, la maledì (Leggenda maggiore, VIII, 6).
Affinità immaginifiche francescane: povertà e mani bucate
La mania di somigliare al Poverello ebbe forse origine da una congiuntura. Alla fine del 1910, rifugiatosi a Moulleau, in un primo momento ‘Annunzio si sistemò in un paio di stanze di un’umida casetta detta Villa Charitas – in seguito da lui denominata “Regina angelorum” (Di me a me stesso [601]). Scrisse: “Vivo di poco, ho celebrato francescanamente le nozze con la Povertà”. “E per una volta tanto era sincero”, commentò Antongini (Antongini, pp. 148 s.). E al tempo in cui gli vennero sequestrati tutti i beni alla Capponcina, si denominava “Poverello”. Ma per la povertà non aveva inclinazione alcuna. L’ammise. Rivolgendosi a Francesco:
“Io gli dico: «Figliolo mio, tutto potrò essere, fuorché povero. Tutto potrò io donare come dono, e non rimaner mai povero. E s’io m’appresso alla tua santa Povertà e, dopo te, le pongo al dito l’anello nuziale in pegno e in segno, la sposa mia scalza e lacera si trasmuta in regina di tutte le corone, e s’ammanta di porpora ermellinata, e s’allaccia calzari vaiati, e sola aulisce come l’Arabia turìfera […]»” (Ripudio della povertà).
Ma una certa sua attitudine gli dava ansa a immaginarsi «francescano. Provava ribrezzo corporeo per il danaro materiale: a maneggiarlo, sembrava avesse “vergogna”. Non poteva non essergli nota la medesima ripulsa anche fisica di Francesco. Ricordo solo uno dei tanti episodi relativi a Francesco, e certamente non il più decisivo e di natura normativa. Una volta un frate prese in mano una moneta deposta da un fedele alla Porziuncola e la gettò sul muretto della finestra; saputolo, Francesco lo rimproverò aspramente per aver toccatoquella cosa, gliela fece prendere con la bocca e deporre sullo sterco (Vita seconda, 65). A un livello che attiene allo spirito di magnificenza, avevano la stessa avversione per la mentalità borghese. D’Annunzio confessò: “Non posso più vivere su questa terra schiava, misurata, messa a profitto in ogni palmo” (Regimen). C’era un punto più serio, tuttavia, in cui d’Annunzio pensò di collimare con Francesco: nel principio cardine del lavoro; e teneva a segnalarlo.
La convergenza più facile e istintiva tocca però la predisposizione al grandioso. Nella consapevolezza di sé. Nello spendere. Nel donare.
Da giovane, Francesco, incarcerato durante la guerra tra Perugia e Assisi, annunciava ai compagni come un “pazzo”: “Sappiate che sarò onorato in tutto il mondo”. Da adulto, ammise ad un fido compagno: una volta morto, sarebbe stato coperto in segno di onore con stoffe preziose e drappi di seta. Per divina bontà, naturalmente (I tre compagni, 4, e Specchio di perfezione, 109 e 121). Senza bontà divina ma per liberalità della natura, d’Annunzio ammise di sentirsi “egregio” (Regimen), e caso volle che gli sia stato donato il drappo, ritessuto, che avvolse il feretro di Francesco il giorno della traslazione (Fortini, pp. 193 s.).
Per il vero, d’Annunzio era “umile ed orgoglioso” (Di me a me stesso, [57]). L’ammetteva. Confessò: “[…] due dei vecchi nemici che San Francesco scaccerebbe e io ero riuscito a debellare, mi si sono di nuovo posti ai lati; a destra l’Orgoglio, a sinistra il Disprezzo”. Non sappiamo in quale misura ci fosse riuscito; ma di certo il suo “orgoglio «costituzionale»”, che corrispondeva alla volontà di realizzarsi (Di me a me stesso, [56]), approdò al punto più giusto: “Esser grande in se stesso e per se stesso: questo solo vale” (Di me a me stesso, [342]).
Ciò che di Francesco dovette colpire d’Annunzio in modo speciale, fu la magnificenza nella liberalità. Da giovane, Francesco aveva “il debole di sperperare le ricchezze, quasi fosse rampollo di un gran principe”; con poca convinzione dei genitori, pagava i banchetti per tutta la brigata: e gli amici lo eleggevano, felici e contenti, re delle feste! In effetti “cercava di eccellere sugli altri ovunque: nei giochi, nelle raffinatezze, nei bei motti, nei canti, nelle vesti sfarzose e morbide”. E quando poi fu povero, dava ciò che aveva addosso (Vita seconda, 4 e 2, e Leggenda perugina, 52-55)! D’Annunzio, che spendeva dieci volte di più di quanto guadagnasse (Antongini, p. 200), accostò povertà e sperpero: “Io mi serbo sempre povero, specie quando son ricco. Sin dai miei primissimi anni, il denaro non mi servì se non «per gettarlo dalla finestra»” (Di me a me stesso, [82]). Alcuni comportamenti: non entrava in un negozio, senza comprare qualcosa, anche se non trovava ciò che voleva, e spiegava così questa sua abitudine: “È vergognoso non comprare proprio niente; che colpa ha lui, se non ha la merce di buon gusto?”. Quando riceveva danaro, poi, al fattorino dava per mancia il 10% della somma percepita (Antongini, pp. 155 ss., pp. 160 ss.).
Il nucleo della tendenza del giovane Francesco a spendere più di quanto disponesse, era l’indifferenza all’utile: a lui importava la passione. D’Annunzio: “La passione vera non conosce l’utilità, non conosce alcuna specie di benefizio, […] il coraggio per il coraggio, l’amore per l’amore” (Regimen).
E il dono per il dono. Notò d’Annunzio, ancora: “Quando l’anima è bella non ha gioia se non nel donarsi grandemente”. Non era virtù. Ma grandiosità d’animo. Fin da piccolo. Rammento solo un ricordo del 10 giugno 1922 di d’Annunzio: fanciullo, dava ogni giorno la sua merenda ad un amichetto “poverello”, Cincinnato; e quando la madre di Gabriele, venuta a saperlo, voleva fornire il figlio di altra merenda, costui rifiutò per “non sentir menomato il piacere dell’offerta” (Nella piccola e Frammenti).
Il suo motto, “Io ho quel che ho donato”, a suo dire significava: ricevo nella misura in cui ho donato e dono nella misura in cui ricevo. Sembra comunque inoppugnabile la sua affermazione, secondo cui aveva sempre dato ciò che gli era chiesto e anche quel che non gli era stato chiesto, a parte nel caso in cui gli altri se ne approfittavano. Abitando a Parigi sull’Avenue Kléber, un italiano gli chiedeva soldi quasi ogni giorno e poi se li andava a spendere al bar. Antongini lo riferì sdegnato a d’Annunzio, che rispose sereno: “Che cosa pretenderesti? che si comprasse un’automobile con venti lire?”, e continuò sempre a fargli l’offerta (Antongini, pp. 166 s.). Viene in mente quel Francesco che si era prefisso di donare “a tutti quelli che domandavano” (Specchio di perfezione, 34 e Vita prima, 76); e quando un frate insinuò di un mendicante che si fingesse bisognoso, lo rimproverò duramente, gli ordinò di spogliarsi davanti allo straccione, di chiedergli perdono e di baciargli i piedi.
Le motivazioni erano differenti. Ma l’attitudine era quella. E, se non poteva fare di più o aveva dato quanto chiesto, d’Annunzio si scusava, come se fosse in debito. E nel regalare era delicatissimo. Un esempio: un generale, suo compagno d’armi, gli chiese certi polsini con le effigi delle Vittorie. D’Annunzio non ne aveva più: gli restavano quelli che portava addosso. Disse che andava a prenderli, si assentò, se li tolse, tornò e glieli diede; l’altro, accortosi che aveva polsini di diverso tipo, si rincrebbe. Ma d’Annunzio: “Non li metto quasi mai, perché, sai, quando scrivo mi infastidiscono col loro tintinnio” (Antongini, pp. 154 s.).
Un pensiero di d’Annunzio, scritto in quell’arco di tempo in rapporto ad amici lontani, sembra l’eco dell’atteggiamento donativo di Francesco: “E l’angoscia di non aver abbastanza donato, e l’angosciosa domanda: ‘ora che donerò? Come dimostrerò il mio amore’” (Regimen).
Francesco, ancora giovane, visitando San Pietro a Roma notò che la gente gettava pochi spiccioli all’altare di San Pietro. Aperta la borsa, prese a lanciarvi “denaro a piene mani”, tacciando di “taccagni” gli altri (I tre compagni, 10). In seguito si premurava dei bisogni dei preti e delle chiese povere. D’Annunzio lo lesse in Saint François d’Assise di Jörgensen, «Le baiser donné au lépreux». Di fatto fu molto generoso con frati, preti e suore. Un frate cappuccino gliene abbia dato atto. Costui si disse scettico se d’Annunzio imitasse per davvero san Francesco: “Ma posso darti testimonianza che in questo certo v’assomigliate, che tutti e due avete le mani bucate” (Nicodemi, p. 142). L’episodio era tuttavia narrato da d’Annunzio stesso (Fusco, p. 47).
È però da segnalare un caso che ha del sorprendente. Vanesio per gioco o per interesse, d’Annunzio non lo raccontò, forse, ad alcuno. Se così è, allora è qui, il d’Annunzio interiore.
L’8 ottobre 1925 due suore della Congregazione francescana di Gesù Bambino, provenienti dalla Casa generalizia situata vicino alla basilica della Porziuncola, bussarono al Vittoriale per elemosinare. Un servitore le invitò ad andarsene. Allontanatesi, furono raggiunte da un’automobile; ne uscì un uomo pregandole di tornare indietro. Giunte al cancello, lo riconobbero. D’Annunzio chiese loro perdono del trattamento e consegnò loro una lettera. Il testo della lettera (Porto, pp. 49-63):
“Care sorelle, la vostra visita inattesa fa fiorire i rosai del mio giardino, quasi in gloria di quello che è in Santa Maria degli Angeli e in Paradiso: in quel vostro luogo che, secondo la parola di Francesco, «sarebbe piuttosto soggiorno d’angeli che di uomini». / Ecco la mia offerta. È fatta col cuore di chi ogni anno mandava al Monte Subasio, per riconoscimento, un panierino di muggini pescati in quel fiume Chiasso che discende dal colle vicino a Santa Maria degli Angeli vostra. / Pax et bonum. / Malum et pax”.
Gianni Oliva (Oliva, p. 43) ha accostato l’aneddoto a quello di frate Angelo, compagno di Francesco, che invitò tre “crudeli omicidi” a tornare indietro (Leggenda perugina, 90; I fioretti di san Francesco, XXVI). Va fatto un rilievo. La frase: “sarebbe piuttosto soggiorno d’angeli che di uomini”, non era un’invenzione sua. Era nella liturgia della Indulgenza Plenaria della Porziuncola, che egli conosceva bene (Altri taccuini, 2, 1896).
Affinità immaginifiche francescane: gusto musicale
Tra i discepoli più fidati, Francesco ne ebbe uno che era stato famoso “re dei versi” e “gentilissimo maestro di canto”: Pacifico di Lisciano d’Ascoli. Gli chiedeva di suonargli la musica “molto dolcemente”. E si rivolgeva ad essa per sollevarsi dalle sue sofferenze. Anche moribondo. E magari cantava in francese. A volte, spinto dalla voglia di suonare, se non aveva lo strumento s’arrangiava: “raccoglieva un legno da terra, e mentre lo teneva sul braccio sinistro, con la destra prendeva un archetto con tenuto curvo da un filo e ve lo passava sopra accompagnandosi con movimenti adatti, come fosse una viella” (Vita seconda, 127 e Specchio di perfezione, 93). D’Annunzio lo sapeva, e trattando degli Spirituali immaginò che “talun dei più semplici dal vertice della rupe [del Morrone] aprendo le braccia verso l’aurora ripeteva con bocca fedele il Cantico delle creature, o lo cantava a gran voce di giubilo simulando con due legni il gioco del liuto […]” (La Vita di Cola di Rienzo). Ed è curioso un suo ricordo, annotato in taccuino, dell’amica americana residente a Zurigo, nel settembre del 1899: Clarissa, detta Melodia, cantava “le vecchie canzoni dei trovatori […], accompagnandole con gesti ingenui e puerili” (Altri taccuini, 11, 1899; 12, 1899).
D’Annunzio si commuoveva come un bambino, ascoltando la musica. Gian Francesco Malipiero ricordò: “Le sue lacrime, le sue commozioni egli le nascondeva, ma io le intuivo, perché mi rivelavano quella sincerità che il suo stile talvolta nascondeva sotto l’esuberanza del troppo fiorito linguaggio poetico” (Malipiero, p. 204). Si rivolgeva alla poesia musicale quando stava male (A Barbara, 17 novembre 1891), in specie durante la degenza del 1916: la musica e il canto “parlano come in un dramma religioso, come in un mistero sacro” (Mentre il mio corpo è lavato); e pensando all’inno che Giuseppe Miraglia aveva improvvisato alla maniera del Cantico: “M’incalza il cuore veloce non so che smania di canto” (È la mia magia, questa?).
D’Annunzio del resto si definiva “Ariel musicus” (L’amore trascolorato).
Affinità immaginifiche francescane: amore per gli animali
L’amore per gli animali fu per d’Annunzio un altro elemento, tra i più vivi, che gli fecero provare simpatia per Francesco. D’Annunzio, in effetti, ricordò più volte Francesco predicare agli uccelli, e al Vittoriale ne fece eseguire un dipinto (Fortini, p. 177).
Francesco parlava agli uccelli. Al di là dell’uso agiografico, il dato reale è che egli aveva squisita sensibilità per gli animali e con essi viveva rapporti molto semplici. Era il falco che instaurò un vero feeling con lui, alla Verna; era il fagiano che gli si affezionò tanto, che Francesco lo teneva abbracciato vezzeggiandolo con dolci parole; era il leprotto, ricevuto a Greccio, che si stringeva a lui e s’intrufolava tra il saio, e lui “come una madre” lo colmava di carezze; era una cicala, alla Porziuncola: dolcemente Francesco la invitava: “«Sorella mia cicala, vieni a me!»”, e la cicala gli volava sulle mani mettendosi a cantare. E poi le allodole, gli agnellini, e così via (Leggenda maggiore, VIII, 8 e 10, Vita seconda, 168 e 170).
D’Annunzio amò tutti gli animali, vipera a parte – egli pensava che una vipera lo avrebbe dovuto uccidere -, e arrivò a dire: “Si può forse conoscere la specie della mia umanità considerando che io sono stato amato senza misura e senza cautela dalle bestie, dalle donne e dai fanciulli” (Regimen). Se escludiamo l’amore per i levrieri e i purosangue, privo di attinenze «francescane» in quanto aristocratico e interessato, manifestò una sensibilità molto più ingenua.
Da fanciullo, istigato dalla sorella a strappare crini al cavallo – cui di nascosto portava la propria merenda da mangiare –, con i quali fare il cappio per catturare le rondini, non si sentì di usare i crini per accalappiare le rondini, e la sera li gettò nel camino (O malinconia). Da grande, a Venezia, sentendo voci di donne chine sul canale e saputo che stavano annegando gattini appena nati, concludeva, nel ricordare il fatto: “La calle stretta, il campiello deserto col suo pozzo murato, sapevano di assassinio” (Mi sembra); e sentiva pietà per gli uccelli spennati (“quei piccoli cranii nudi, quei becchi sanguinanti”) e i maiali ammazzati: “L’orrore mi cacciava di stanza in stanza” (Dall’Alpe). Ricordi d’infanzia. Ma non poté non pensare a Francesco, in questi ricordi, se, proprio in quei giorni, nel 1916, convalescente per l’operazione all’occhio, lo nominò nel guardare una cetonia che divorava una rosa, quando la pietà di sua figlia, combattuta “tra l’insetto e il fiore”, era assomigliata a quella del Serafico che “comprendeva l’uccello vorace e il verme beccato, il fuoco ardente e il vestimento arso, la carne inferma e l’erbe per guarirla premute” (È il sabato santo).
E sapeva quel che diceva! Derivò infatti il riferimento ai vermi dalla Vita prima, 80, e dalla Vita seconda, 165, in cui però Francesco li toglieva dalla strada per salvarli. Il riferimento al fuoco lo derivò dalla Leggenda perugina, 49: accidentalmente, il fuoco si attaccò alle braghe di Francesco, un frate tentò di spegnerlo, ma Francesco oppose un garbato rifiuto: “«Carissimo fratello, non far male a fratello Fuoco!»”, sicché il compagno, allarmato, pensò bene di far intervenire il superiore. Quanto alle erbe che, triturate, servivano per le infermità corporali, già altrove d’Annunzio ricordò come Francesco chiese che gli si cogliesse il prezzemolo (Vita seconda, 51).
C’è poi un episodio nell’opera dannunziana (Forse che sì forse che no) di particolare tenerezza, con un nesso, sia pur solo oggettivo, con l’abitudine di Francesco di parlare agli animali, in specie se questi erano o catturati, o in difficoltà, o riluttanti a lasciarlo.
Isabella Inghirami si accorse che una rondinetta era penetrata in casa, “la prese nelle sue mani palpitante”. “«Come sei venuta? Sei caduta dal nido?”», “«Ah, sei già forte!”», “«Dunque volavi?”», “«Se ti rilascio, saprai volare? fin dove?”», “«Eccola. Le diamo la via?”», “«[…] volerà?”», preoccupata che la piccola creatura potesse, di sera, diventar preda dei pipistrelli.
Un altro episodio: con esplicito richiamo francescano. Protagonista, Anna, figura tratta dalla gente d’Abruzzo (La vergine Anna), in conversazione con un frate minore cappuccino. Ella, che nutriva per una testuggine un affetto “materno”, vedendola uscita dal letargo “fu invasa da una tenerezza ineffabile e stette a guardare con occhi umidi di lacrime. […] si sentì stringere da una gran misericordia; […] eccitava pianamente l’animale con le voci e sceglieva per lui le erbe più tenere e più dolci”.
“Allora Fra Mansueto fece alcune riflessioni morali e lodò la Provvidenza che dà alla testuggine una casa e le dà il sonno durante la stagione d’inverno. Anna […] soggiunse: «Che penserà?» E dopo un poco: «Gli animali che penseranno?». / Il frate non rispose. Ambedue rimasero perplessi. […] / […] Il frate disse: «Dio sia lodato». E ambedue rimasero cogitabondi, sotto i verdi alberi, adorando nel loro cuore Iddio”.
La lode a Dio veniva dopo che i due avevano osservato la fila delle formiche laboriose e riproponeva l’abitudine di Francesco di lodare gli animali per le qualità che rappresentavano le virtù – Francesco prediligeva l’agnello per la sua mansuetudine e umiltà (Vita prima, 77). Anna amava nella testuggine “i costumi: il silenzio, la frugalità, la modestia, l’amor della casa”. Francesco diceva agli uccelli (Vita prima, 58, da cui derivò il capitolo XVI de I fioretti di san Francesco, «Come santo Francesco […] predicò agli uccelli e fece stare quete le rondini», che d’Annunzio conosceva bene già dal 1884:
“«Fratelli miei uccelli, dovete lodare molto e sempre il vostro Creatore, perché vi diede piume per vestirvi, ali per volare e tutto quanto vie è necessario. […]: voi non seminate e non mietete, eppure Egli vi soccorre e guida, dispensandovi da ogni preoccupazione». A queste parole […] gli uccelli manifestarono il loro gaudio secondo la propria natura, con segni vari, allungando il collo, spiegando le ali, aprendo il becco e guardando a lui. Egli poi andava e veniva liberamente in mezzo a loro, sfiorando con la sua tonaca le testine e i corpi”.
Siglario dei testi citati
A Barbara: Lettere a Barbara Leoni, Premessa di Bianca Borletti, Nota di Pietro Paolo Trompeo, Milano, Sansoni, 1954.
Ad Annibale Tenneroni: Gabriele d’Annunzio, Prefazione a La Vita di Cola di Rienzo descritta da Gabriele d’Annunzio e mandata ad Annibale Tenneroni suo amicissimo.
A Francesco Paolo Michetti: Gabriele d’Annunzio, Dedica de Il piacere.
A Mario da Pisa, Gabriele d’Annunzio, Lettera introduttiva a Contemplazione della morte.
Andreoli: Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele d’Annunzio, Milano, Mondadori, 2002.
Antongini: Tom Antongini, Quarant’anni con D’Annunzio, Milano, Mondadori, 1957.
Caliaro: Ilvano Caliaro, Prefazione e note a Gabriele d’Annunzio, Alcione, a cura di Pietro Gibellini, Torino, Einaudi, 1995.
Dall’Alpe: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Di Ciaccia: Francesco di Ciaccia, D’Annunzio e le donne al Vittoriale. Corrispondenza inedita con l’infermiera privata Giuditta Franzoni, Presentazione di Pietro Gibellini, Milano, Asefi Terziaria, 1996.
Di me a me stesso: Gabriele d’Annunzio, Di me a me stesso, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1990.
È il sabato santo: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
È la mia magia, questa?: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
È la Pasqua di Resurrezione: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Fortini: Arnaldo Fortini, D’Annunzio e il Francescanesimo, Assisi, Edizioni Assisi, 1963.
Frammenti: in Gabriele d’Annunzio, Il libro ascetico della giovane Italia.
Fusco: Gian Carlo Fusco, Le rose del ventennio, Milano, s.e., 1974.
L’amore: in Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti.
L’amore trascolorato: in Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti.
La vergine Anna: in Gabriele d’Annunzio, Le novelle della Pescara.
Leggenda maggiore: San Bonaventura da Bagnoregio, Leggenda maggiore o Vita di san Francesco d’Assisi.
Libro segreto: Gabriele d’Annunzio, Cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire.
Malipiero: Gian Francesco Malipiero, Ariel musico, in «Scenario», aprile 1938.
Mentre il mio corpo è lavato: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Mi sembra: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Nella piccola: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Nicodemi: Giorgio Nicodemi, Testimonianze per la vita inimitabile di Gabriele D’Annunzio, Milano, Ariel, 1943.
Oliva: Gianni Oliva, Medievalismo e francescanesimo nell’estetismo italiano, in San Francesco e il francescanesimo nella letteratura italiana del Novecento. Atti del Convegno Nazionale (Assisi, 13-16 maggio 1982), a cura di Silvio Pasquazi, Roma, Bulzoni, 1982.
O malinconia: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Quando Sirenetta: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Porto: Giuseppe Porto, D’Annunzio francescano in una lettera inedita, in «Quaderni del Vittoriale», 19, gennaio-febbraio 1980.
Regimen: in Libro segreto (si veda).
Ripudio della povertà: in Gabriele d’Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti.
Sonnolenza: in Gabriele d’Annunzio, Notturno.
Via crucis: in Libro segreto (si veda).
Vita prima: Tommaso da Celano, Vita prima di san Francesco.
Vita seconda: Tommaso da Celano, Vita seconda di san Francesco.
Note
[1] Con varie interruzioni, fu qualche mese a Francavilla dal luglio 1888 lavorando a Il piacere; dal 2 luglio al 31 ottobre 1889; dal 12 marzo al 26 agosto 1891, per L’Innocente (scritto “nel Convento francescano”, Regimen) e Giovanni Episcopo; dal 22 dicembre 1893, per continuare il Trionfo della Morte: alla sua conclusione, il 12 aprile 1894, furono suonate per un’ora le campane del Convento; dall’ottobre 1894 alla fine dell’anno, proseguendo la stesura de Le vergini delle rocce, conclusa il 30 giugno 1895; nella seconda metà del 1895, per redigere il discorso L’Allegoria dell’Autunno; nel 1896, per terminare Canto nuovo e iniziare Il fuoco; per quaranta giorni dalla fine di settembre lavorando a La città morta. L’ultimo soggiorno fu nel dicembre 1897.
[2] Qui rammento solo il nesso esteriore eros-tempio. Con le sue donne pie, egli andava spesso in chiesa, anche per le funzioni sacre (A Barbara, 25 marzo 1891, 1 giugno 1991). In poesia: “A San Giorgio io vi guidai, / […] / Ivi alfin l’amor s’aprì” (Romanza di Intermezzo melico de La Chimera). Ne Il piacere, libro terzo, Andrea attendeva Elena nella stanza “religiosa, come una cappella”: il letto, “sopra un rialzo di tre gradini, all’ombra di un baldacchino” con arredo sacro, e un’Adorazione dei Magi sulla “tavola del caminetto, come su la tavola di un altare”. Tutto “sacrilego”, ha osservato Oliva, p. 45, a proposito del letto che parve “un altare” quando, braccia aperte, capelli sciolti, la donna vi si stese (Donna Francescade La Chimera). Per l’autore, “nemmen l’ombra d’una intenzione antireligiosa” (Note a Donna Francesca).
(Pubblicato in Literary nr. 5/2011)
Nessun commento:
Posta un commento